20 febbraio 2021. Auckland, Nuova Zelanda. Luna Rossa batte gli inglesi di Ineos 7 a 1 per la selezione degli sfidanti ai detentori dell’America’s Cup. 

     21 febbraio 1931. Lido d’Albaro, Genova, Italia. Il Regio Yacht Club Italiano il via alle regate internazionali per la Coppa del Mediterraneo e la Coppa del Tirreno. Vento fresco (forza 5) da grecale, mare lungo da ponente-libeccio. 

     Navigare per diletto e, in questi due casi, uno sport per “ricchi”. Esiste ed esisteva, invece, una navigazione per lavoro, per “bisogno”, non sempre, anzi quasi mai, una scelta di passione ma una via obbligata perché non ci sono alternative, perché ti permette di aiutare la famiglia, perché devi seguire tuo padre, perché 

     A metà febbraio del 1931, il 12, i brigantini goletta “Luisa Madre”, con al comando il Padrone Giovanni Salesi, e “Ferdinando Sigona” con al comando il Padrone Gioacchino Sigona, partono da Pozzallo con un carico di carrube per Savona il primo e per Genova il secondo. Il “Luisa Madre” è stato costruito a Sestri Ponente nel 1891 ed è di proprietà di Nicola Greco e dello stesso Salesi.

È una bella “brigoletta”, la Luisa Madre, un brigantino e come tale dotato di due alberi, trinchetto e maestra, e di bompresso ma come le golette le vele sulla maestra sono auriche anziché quadre. Stessa cosa per la “Ferdinando Sigona”.

Bastimenti in porto

     I due velieri navigano di conserva. Favoriti da venti provenienti dai quadranti inferiori. Doppiato Capo Passero, corrono verso Nord. Navigazione tranquilla e abbastanza veloce. Per i due esperti comandanti navigare con queste condizioni di vento e di mare è un vero piacere. Al traverso di Capo Murro di Porco si fa il punto nave. La visibilità e ottima e bastano due rilevamenti quasi contemporanei per stabilire la posizione con un buon grado di precisione. Si passano Siracusa, Augusta, Catania e si punta su Reggio Calabria per immettersi nello Stretto. Con questo vento il passaggio dello stretto sarà agevole e, infatti, si risale la costa calabra e al traverso di Punta Pezzo si accosta a dritta fino a Scilla. Da Scilla in poi le rotte dei due bastimenti si separano e ben presto si perdono di vista. Il Luisa Madre ed il Ferdinando Sigona non s’incontreranno più.  

     Costeggiando la costa calabra tirrenica, il “Luisa Madre” fa rotta per Pozzuoli. Lo spedizioniere deve consegnare i documenti del carico e si approfitta della sosta per fare provviste e riposarsi un po’. È il 22 febbraio.  

     Castellamare di Stabia. Le maestranze, Maestri d’ascia e Calafati in particolare, sono in festa. Il progettista Tenente Colonnello Francesco Rotundi ed il Direttore del Cantiere Colonnello G.N. Odoardo Giannelli, in alta uniforme presenziano, orgogliosamente, ad una bellissima cerimonia. Approfittando di una giornata quasi primaverile, Elena Cerio, figlia diciannovenne del Comandante Marittimo del Porto di Napoli, C.V. Oscar Cerio, taglia il nastro. Mentre la nave viene benedetta e la banda esegue la Marcia Reale d’Ordinanza Inno Nazionale del Regno d’Italia, la bottiglia di champagne, liberata dal taglio del nastro, s’infrange contro la prua dell’Amerigo Vespucci. Maestosa, elegante e robusta, la nuova Nave Scuola per l’addestramento degli ufficiali di marina italiani inizia la sua lunga vita. 

     Il Luisa Madre, intanto, a pochi chilometri di distanza, ha preso il suo posto in banchina. Giovanni Salesi incarica il nostromo di assicurare l’ormeggio e si prepara a recarsi dallo spedizioniere. Completate tutte le pratiche ed imbarcate provviste fresche, si riparte martedì 24 febbraio assieme al “Giovanni Padre”, brigantino goletta al comando del Padrone Nelito Ghio che con un carico di vino è diretto a Genova. I due comandanti decidono di navigare di conserva.  

     Tempo perfetto con ancora venti dai quadranti meridionali. Si bordeggia per lunghi tratti alternando le mura a dritta con quelle a sinistra e, quando possibile, di gran lasco sfruttando tutta la portanza delle vele.  

     Il sig. Nicola Punzo, spedizioniere, nel consegnare i documenti del carico, per distrazione, li scambiò e, fortunatamente, il comandante del “Giovanni Padre” se ne accorse in tempo. Grazie al tempo magnifico, Ghio, segnala al “Luisa Madre” di avvicinarsi. I due brigantini riducono la velatura per perdere velocità fino quasi a fermarsi. Si è in vista del porto di Anzio, i due velieri si affiancano e Nelito Ghio, con le carte giuste, in una borsa di cuoio, salta a bordo del “Luisa Madre”. Giovanni Salesi lo aspetta a murata, gli  la mano per aiutarlo e i due si recano nella tuga a poppa per effettuare lo scambio di documenti. Giusto il tempo di bere un bicchiere di vino, di controllare che tutte le carte siano in regola e i due rifanno il percorso inverso. Salesi ha l’impressione che il vento stia per cambiare. I due lupi di mare si scambiano ancora qualche parola e Ghio, reggendosi ad un paterazzo, sale sul parasartie e con un balzo passa sulla sua nave aiutato dal suo nostromo. Barra a sinistra e il “Luisa Madre” si allontana dall’altro veliero che lo segue nella manovra. Su trinchettina, fiocco e controfiocco e via via tutte le altre vele.  

     È il 25 febbraio. Davanti al Lido d’Albaro proseguono le regate. La Bamba, del Grande Ufficiale Giovannelli vince la seconda prova della Coppa Rylard. Il vento di maestrale ha permesso all’otto metri di percorrere il campo di regata in 2 ore, 13 minuti e 29 secondi. Il mare è calmo. La gara dei sei metri per la Coppa Lloyd Sabaudo è vinta, invece, dalla Rosita III di Madame Conil con un tempo di 2 ore, 19 minuti e 52 secondi. 

     Con vento leggermente rinforzato e ancora dai quadranti meridionali, i due velieri navigano tranquilli e spediti verso le loro destinazioni. La sera del 27 febbraio, al crepuscolo serale, il mozzo Giovanni Lupo, nipote del comandante, avvista, ad un paio di miglia di prua, la Torre della Meloria con la luce a sud che indica l’inizio dell’area delle secche. A circa 5 miglia a Nord Nord Est si vedono le luci della città di Livorno. Si naviga a circa 4 nodi. Il comandante Salesi, il nostromo Natale Galazzo, il figliastro Carmelo Catania e il marinaio Francesco Nicosia sono sottocoperta per consumare la cena mentre l’altro marinaio, Salvatore Lazzero, è al timone e il mozzo, Giovanni Lupo, di vedetta. Un solo cenno a Natale, che questi, prontamente, riporta agli altri commensali e l’ultimo boccone viene inghiottito quasi senza essere masticato. Tutti in coperta. Non c’è tempo. Bisogna accostare. Il “Giovanni Padre” segue a circa mezzo miglio di distanza e anche il suo equipaggio ha avvistato la luce delle secche e si attiva per la manovra. Il vento, fino a quel momento, soffiava da scirocco. Dal lasco con mura a sinistra si passa al lasco con mura a dritta. Lascate opportunamente le vele il veliero riprende velocità e piano piano la luce delle secche si allontana e si sposta verso poppa. Quando viene avvistata la luce della Secca di Fuori, che segna la parte settentrionale delle secche, il vento comincia a rinforzare. Da brezza tesa (forza 2) a vento moderato (forza 3) a vento teso (forza 4). Il mare da leggermente mosso diventa agitato. Pioviggina. «Natale fai rizzare tutto in coperta. Questo vento non mi piace. Ah, segnala a Ghio che puntiamo direttamente su Savona. Voglio arrivare prima possibile.» Cambio al timone del marinaio e il nostromo, con la lanterna segnala al “Giovanni Padre” le intenzioni del comandante ricevendo il buon viaggio dal segnalatore dell’altra nave.  

     Salesi scende sottocoperta. Va al tavolo nautico e comincia a guardare la carta. Alla fioca luce della lanterna prova a misurare con il compasso le miglia che mancano al porto di arrivo. Il veliero, sbandato a sinistra per l’azione del vento beccheggia e per Salesi diventa difficile fare i calcoli. Non importa, ha fatto quella rotta così tante volte che la conosce come via Leonida a Pozzallo dove abita. Mancano circa 84 miglia per arrivare a destinazione. Se il tempo tiene e si riesce a tenere questa velocità, considerate le bordate, e aiutati dal mare che spinge la nave dal giardinetto di sinistra, si potrebbe arrivare in 18 ore. «Natale!» Il nostromo sta controllando la chiusura dei boccaporti. Le carrube non devono prendere acqua e se il mare aumenta qualche maroso può salire in coperta. I sibili del vento tra il sartiame e lo scroscio dell’acqua coprono la voce di Giovanni Salesi. Questi urla più forte e Natale Galazzo, pur senza sentire, si volta e, alla debole luce che aiuta il timoniere a leggere la bussola, scorge la mano del comandante che gli fa cenno di avvicinarsi. «Senti, Natale, sto pensando di issare la vela di barile e quella di mangiavento. Sono nuove. Fortuna che le ho comprate prima di partire. Che ne pensi?» «Si. Sono d’accordo. Questo vento proprio non mi piace.» «Bene, Natale, issiamole e tira giù qualcuna di quelle più malandate.» 

     La notte trascorre relativamente tranquilla. Sballottati da una parte all’altra. Neanche le amache permettono di prendere sonno. I turni di guardia si susseguono regolarmente e si cerca di farli coincidere con il cambio delle mura. Salesi sale in coperta sempre più spesso e fissa la prua cercando di apprezzare ogni raffica per capire se i salti di vento preludono ad un cambio di direzione. Il barografo dondola nella tuga, vicino al tavolo di carteggio, e sembra segni una diminuzione della pressione, che significa cattivo tempo.  

     Il padrone marittimo Giovanni Salesi torna indietro nel tempo con la memoria. Trent’anni per mare con questo bastimento. Ne conosco ogni singolo chiodo – pensa-, ogni singola tavola del fasciame, ogni difetto ma anche tutti i pregi che mi hanno permesso di affrontare tempeste di tutti i tipi riuscendo a portare a destinazione carico ed equipaggio incolumi. Eppure, sei anni fa ho temuto più per la mia nave che per la mia stessa vita; e l’idea di perderla mi faceva tanto male quanto la perdita della mia amata moglie Maria Concetta. Nelle acque del Golfo di Napoli, una libecciata ha strappato, uno dopo l’altro i pennoni fino a spezzare i due alberi di quercia. Il veliero era senza governo e avevo già ordinato di provare a mettere la lancia in mare quando un piroscafo in transito, accorgendosi che eravamo in pericolo, riuscì ad accostare e prese a bordo tutto l’equipaggio. Tutto l’equipaggio, tranne il comandante. Potevo abbandonare la mia nave? Un comandante può abbandonare la sua nave? Ho vissuto più tempo in mare, su questa barca, che a terra con i miei cari. È lei che ha portato benessere alla mia famiglia, alla mia prima moglie Maria Concetta e a Rosa, vedova come me, che ho sposato per dare una madre a miei figli ancora piccoli e per sostenere i suoi, privati del padre e del necessario sostentamento. Ma ora? Potevo abbandonare la mia “Luisa”? No. Un Comandante non abbandona la sua nave. Il comandante del piroscafo, un vecchio lupo di mare inglese, comprendendo la mia pena, mi lasciò in balia delle onde e si allontanò temendo anche lui quel mare impetuoso e ritenendo impossibile il traino. Fatte poche miglia, però, impietosito da quell’atto di coraggio, invertì la rotta, e arrivato vicino al “Luisa” mi passò un cavo. Riuscii a legare quel cavo al bompresso e la mia nave fu trainata fino a Messina. Il “Luisa Madre” era salvo e con lui il suo equipaggio, il suo carico e il suo comandante. 

     Combattendo con la sua mente, Giovanni Salesi, si chiede il perché di quei pensieri. Si il mare è grosso ma le vele sono tutte a riva, gli alberi sono più robusti dei primi e non sono sotto sforzo. Non c’è motivo di ripensare a quella brutta avventura ma quel ricordo non lo abbandona. 

     Sabato 28 febbraio 1931. Verso est si scorgono le prime luci del crepuscolo che avanza mentre a ovest un cielo plumbeo, carico di nuvole conferma l’avvicinarsi di una tempestaPonendo le spalle al vento, che adesso è calato un po’, il marinaio esperto calcola la posizione approssimata della bassa pressione. Si trova più o meno dalle parti di Nizza e si sposta verso l’Italia. Salesi ha passato quasi tutta la notte vicino al timoniere. Il sole non è visibile per la coltre di nubi che copre il cielo per tutto l’orizzonte. Da sotto coperta il mozzo lo chiama. «Zio, ho preparato il caffè». «Si, Giovanni. Scendo.» Ma poi, ripensandoci, si affaccia all’apertura sulla tuga e chiama il nipote. «Giovà, portalo su e porta anche un paio di gallette. Porta anche il caffè per Natale e per Francesco». «Va bene, zio». Un caffè caldo non basta a riscaldare ma, almeno, aiuta a tirarsi un po’ su. Dopo una notte passata all’aperto, sotto la pioggia e gli spruzzi del mare la cerata non riesce più a trattenere l’acqua. Il freddo è pungente e la tensione aiuta a restare vigili. «Natà, voglio continuare su questa rotta. Dovremmo riuscire ad arrivare a Savona prima che si scateni il finimondo». «Non so. E se puntassimo su Genova? Siamo vicini.» «No, no, andiamo avanti. Se, poi, peggiora ancora siamo sempre in tempo ad accostare su Genova». «Si, forse hai ragione. Se andiamo a Genova ora rischiamo di restare bloccati in porto per chissà quanto tempo». «Natà, considera, poi, che Felice Bugna aspetta questo carico di carrube e Bolens è uno spedizioniere fastidioso. Quello è capace che se ritardiamo una mezza giornata ci applica qualche penale. Scendi giù. Cerca di riposare un po’. Scrivo qualcosa sul giornale e cerco di riposarmi anch’io». Rivolgendosi, poi al timoniere gli dice: «Francè, alle otto, manda mio figlio a chiamarmi e vai a riposare anche tu. Se vedi che il vento cambia o rinforza chiamami subito».  

Giorno 28 febbraio 1931 IX 

Giornale Nautico del Brigantino-Goletta Luisa Madre. In navigazione da Pozzuoli a Savona. Da mezzanotte alle quattro: si naviga di gran lasco con mura a dritta. Dalle quattro alle otto: si naviga di gran lasco con mura a sinistra.  

Lido d’Albaro. Genova

Lido d’Albaro – Genova

     Alle sette ci si prepara allultime regate. Al Regio Yacht Club Italiano, il comitato organizzatore dell’importante evento si è riunito per discutere se non sia il caso di rinviare la finale viste le condizioni meteo. I commissari, a dire il vero, non sembrano molto impressionati dal vento che monta e dai piovaschi. Le regate impegneranno la mattinata e si dovrebbe riuscire a portare a termine tutte le regate senza problemi. Anzi, è opinione di tanti, un vento sostenuto renderà le gare più vivaci e poi uno slittamento comporterebbe numerosi problemi logistici visto che molti equipaggi vengono dall’estero. Il fresco vento da scirocco avrebbe permesso delle boline strette per i regatanti rendendo i giri di boa entusiasmanti perché le barche avrebbero potuto esprimere tutte le loro potenzialità. Anche l’ufficiale della Capitaneria concorda sul fatto che le gare possano svolgersi regolarmente anche se qualche perplessità gli passa per la testaLa sua esperienza lo fa tentennare ma non ha nessuna intenzione di mostrarsi contrario. Lo Yacht Club è formato da persone importanti, molto influenti, e una perplessità potrebbe facilmente trasformarsi in una rimostranza da presentare al suo comandante e potrebbe addirittura compromettere la sua carriera. È deciso. Le gare si faranno secondo il calendario previsto. 

     Il “Luisa Madre” corre veloce aiutato dal mare che lo sospinge e con le onde che cercano di sommergerlo. Sembra quasi che il vecchio legno faccia a gara con le onde per non farsi sorpassare. Alle otto in punto Salvatore Lazzero e Giovanni Lupo salgono in coperta per il loro turno di guardia. Hanno dormito male. La nave è percorsa da scricchiolii. Sotto coperta sembra quasi che le tavole del fasciame siano sul punto di schiodarsi. Le carrucole del timone cigolano per i continui movimenti che il timoniere è costretto ad imprimergli per mantenere la rotta. Sono assonnati. Francesco Nicosia fa un cenno a Carmelo. «Cammè, chiama tuo padre e il nostromo». Il ragazzo scende sottocoperta e riappare dopo qualche minuto seguito da Natale e da Giovanni Salesi. Dai, forza, tutti in manovra. Nonostante la stanchezza, l’equipaggio si prepara a cambiare le mura incitati dal comandante che sostituisce il marinaio al timone. La manovra viene eseguita rapidamente, senza intoppi. Il boma passa rapidamente sopra la testa del comandante al timone che lo segue con gli occhi e aspetta che la randa torni a gonfiarsi di vento. Anche il picco segue il boma trascinando con  la controranda. Le vele tornano a gonfiarsi e, prima che le onde riescano a salire sulla poppa, la nave riacquista velocità e la “gara” riprende 

     Salesi cede il timone a Salvatore e ritorna sotto coperta con la guardia smontante, con Carmelo Catania che, in realtà, non è suo figlio ma il figliastro. Rimasto senza padre, il ragazzo, ha bisogno di qualcuno che lo formi alla vita del mare. Quello è il suo destino e chi meglio del patrigno può sostenerlo e può guidarlo? Scendendo la piccola scaletta, Salesi gli bussa sulla spalla sinistra. Il ragazzo si gira e con sguardo interrogativo chiede: «Sicomandante Sono passati undici anni da quando Giovanni Salesi è entrato a far parte della sua famiglia e ventuno dalla morte del padre ma ancora non riesce a chiamare quell’uomo in modo più confidenziale. A casa gli dà del voi e in mare lo chiama comandante anche per non far pensare agli altri di essere, in qualche modo, privilegiato. «Cammè, vai a riposare. Mangia qualcosa, cambiati, mettiti qualcosa di asciutto e cerca di riposare. Vedo che sei stanco». Ha ventitré anni, Carmelo Catania. Ha appena finito il servizio militare, adesso è un uomo. Eppure, quella parte di lui che si è fermata all’agosto del 1911, quando il padre morì, nota nella voce del patrigno, un’inflessione paterna. Da allora non gli era più capitato di sentirsi raccomandare come solo un padre può fare. Fa un cenno di assenzo a quell’uomo e si dirige verso la sua brandina felice del sentimento che aveva intuito.  

     Salesi si avvicina al tavolo di carteggio. Osserva la carta e a mente calcola le miglia che possono aver percorso. Siamo, più o meno, al traverso di Sestri LevanteAncora una settantina di miglia, considerati i bordeggi, e siamo a Savona. A questa velocità, se Dio vuole, al massimo per le 22 saremo in banchina. Al sicuro. La mattina prosegue, tutto sommato tranquilla. La visibilità di sicuro non è eccellente. Piovaschi continui, a tratti intensi, non permetto di vedere a più due/tre miglia.  

     Giovanni Lupo è di vedetta. Nessun legno in vista. Aveva visto il “Luisa Madre” tirato a secco per manutenzione ed era rimasto impressionato dalla maestosità di quel veliero. Ora, invece, gli sembrava un guscio di noce in mezzo all’oceano. Prima di salire in coperta aveva controllato la sentina. Nemmeno una goccia d’acqua. Aveva controllato le stive. Perfettamente sigillate anche se l’odore delle carrube era molto intenso. La nave è sicura. Eppure non era tranquillo. Stringe gli occhi per cercare di vedere una vela amica ma niente. Non si sentono altri rumori diversi dai cigolii delle carrucole, dagli scricchiolii del legno, dal fischio del vento fra le manovre e dal fragore delle onde. Vorrebbe salire sulla coffa del trinchetto ma sarebbe più esposto al vento e alla pioggia e, poi, era stato espressamente vietato dal nostromo. Troppo pericoloso per il rollio della nave. Se proprio non è necessario tutta la gente lavora in coperta  

     Alle 11 un improvviso groppo di vento fa sbandare pericolosamente la nave. Salvatore Lazzero, bravissimo timoniere, contrasta immediatamente lo sbandamento e riesce a riprendere il controllo del bastimento. Nostromo e comandante con un balzo sono in coperta per cercare di capire che succede e in quel momento una grandinata si abbatte su di loro con il cielo squarciato dai lampi e tuoni potenti che sembrano bombardarlaPochi minuti, il vento perde forza, la grandine cessa e la coperta è tutta imbiancata. Si abbassa la temperatura e il veliero sembra come sospinto da una mano invisibile che lo prende da poppa sollevandolo e lo sospinge in avanti cercando di far entrare la prua nell’acqua per affondarlo. A mezzogiorno pare che tutto si quieti. «Natà, continuiamo con questo bordo. Avviciniamoci alla terra, verso Genova. Se arriva qualche altro groppo possiamo riparare “sotto la Lanterna”». Cambio di timoniere, cambio di vedetta.  

     Salesi resta in coperta. Non ha pranzato. Il nostromo gli porta delle gallette e delle acciughe che restano nel contenitore di alluminio. Ancora quella situazione di disagio provata la sera prima. Tante tempeste ha affrontato e tante volte è fuggito con la sua barca davanti alla prepotenza del mare ma questa volta ha l’impressione che sia diverso. Quando sente i morsi della fame prende il contenitore con le gallette e le acciughe e scende sotto coperta. Mentre inizia a mangiare gli occhi gli vanno sul barografo. Il pennino sulla carta mostra una linea in discesa. La pressione sta scendendo e sta scendendo velocemente, troppo velocemente.

     Torna su in coperta, chiama tutto l’equipaggio e riprende lui il timone. «Natà, riduciamo tutte le vele. Se rinforza ancora sarà più difficile». La barca, ora, sembra più governabile. Sente meglio il timone. Si balla ancora, però. Tanti anni passati su queste barche sono state un’ottima palestra per lo stomaco. Al mare non ci si abitua mai. C’è sempre un po’ di nausea ma quando ci si trova nel bel mezzo di una tempesta tutto scompare. Nemmeno la stanchezza, che pure c’è, riesce a superare la tensione. Fra uno scroscio d’acqua e l’altro si avanza in direzione di Genova. Salesi ha valutato a occhio la deriva della nave e continuando così si riserva di fare un ultimo bordo, quando avrà avvistato la Lanterna, per entrare da ponente nel nuovo Bacino Benito Mussolini. 

     Lido d’Albaro. Genova. A mezzogiorno le regate si sono appena concluse. Il vento di scirocco, come previsto, ha reso le gare appassionanti. La nobiltà e la borghesia genovese è soddisfatta. La gara degli 8 metri è vinta da Bamba, quella dei sei metri da Rosita III e quella dei 18 piedi da Nausica. Tutte barche italiane. Ma poteva essere diversamente? In piena era fascista, una gara internazionale che si svolgeva in Italia, non poteva essere vinta dagli stranieri. Allo Yacht Club Italiano era stato preparato un pranzo a cui erano invitati, oltre ai membri del Club e alle rispettive consorti tutte le autorità civili, militari e religiose della città. gerarchi fascisti, in alta uniforme, scalpitavano per cercare di accaparrarsi i posti migliori ma rimasero delusi quando si accorsero che tutto era stato minuziosamente previsto e preparato proprio allo scopo di evitare che piccoli arroganti in camicia nera potessero mettere in difficoltà gli illustri ospiti con le loro battute volgari.  

     Il mare ora sembrava ancora più agitato. Se si fosse ritardato ancora un po’ bisognava sicuramente fermare le gare e spostarle. Le navi dentro al porto sono al sicuro. Il nuovo molo Principe Umberto, progettato e finanziato nel 1928, era stato da poco ultimato e protegge il porto, lato di ponente, dalla furia delle onde quando soffia il libeccio. L’opera è stata realizzata con una soluzione ingegneristica nuova. Dei cassoni galleggianti sono stati trasportati sul posto e lì riempiti di calcestruzzo. Blocchi larghi 12 m, profondi 6 e alti 6 metri e mezzo, formano un muro che protegge il Bacino Mussolini e tutte le opere portuali fino all’idroscalo. 

     Poco prima della fine del pranzo, il colonnello Gerbi, Comandante del Porto, fa un cenno al suo attendente. «Comandi!» «Fai diramare dall’ufficiale di guardia un comunicato a tutte le navi in porto, ai Piloti, alla Cooperativa Antichi Ormeggiatori e alla Milizia Portuale. Ordina alle navi di rinforzare gli ormeggi e agli altri di tenersi pronti a intervenire in caso di necessità.» L’attendente scatta sugli attenti. «Si, Signor Comandante» e si allontana per eseguire l’ordine. Poi, Gerbi, china il capo lateralmente e, sottovoce, dice al commensale che gli stava accanto, incuriosito da quanto aveva visto, «quelle nuvole a ponente non mi piacciono e anche questo vento pare proprio abbia intenzione di creare qualche problema. Meglio pensarci per tempo». 

Ponte Calvi, Porto di Genova.  

     Intorno alle 16 un piantone porta messaggi della capitaneria si avvicina alla passerella di un velieroÈ arrivato due giorni fa. Le operazioni di scarico erano state fermate e i boccaporti erano stati rinchiusi in tutta fretta. Piove e le carrube sono molto sensibili all’umidità. Il piantone arriva proprio quando la stiva poppiera era stata chiusa e la tela olona fissata per impedire all’acqua di infiltrarsi e bagnare il carico. «Ehi a bordo!» Urla il piantone. Il nostromo si gira, gli fa segno di salire a bordo e, contemporaneamente, si rivolge al marinaio che lo aiuta. «Giusè, vedi che vuole quello lì». Giuseppe Ammatuna è un giovane marinaio che dopo un periodo di riposo aveva trovato un imbarco su questo veliero. Il suo ultimo imbarco lo aveva fatto con suo zio, il padrone Giovanni Salesi, sul “Luisa Madre”. Quando aveva deciso di tornare in mare, l’equipaggio del “Luisa” era già al completo. Al padrone Gioacchino Sigona mancava giusto un marinaio esperto per completare l’equipaggio del suo bastimento e sapendo che il giovane Ammatuna era stato istruito dall’amico Salesi non ci pensò due volte e lo arruolò immediatamente. Giuseppe si avvicinò al marinaio e questi gli passò il messaggio con gli ordini del Comandante del Porto e nello stesso tempo glielo sintetizzò a voce mentre tornava sulla passerella per lasciare la nave. «Rafforzate gli ormeggi. Prevediamo cattivo tempo». Aveva ancora parecchi messaggi da consegnare e con quella pioggia non vedeva l’ora di tornare al calduccio degli uffici della Capitaneria. Il nostromo, intanto, si era avvicinato anche lui. «Che voleva? Qualche problema con i documenti del carico?» «No, no, state tranquillo. Pare ci sia una tempesta in arrivo e ci ordinano di rinforzare gli ormeggi». «A si, aspitaumu a riddu» e con il messaggio in mano scende sottocoperta. «Gioacchino, Gioacchì». «Si? Che c’è?» «Niente, niente. La Capitaneria ci ordina di rinforzare gli ormeggi. Questi quattro scribacchini nemmeno sanno cosa sia il mare e danno ordini a chi il suo mestiere lo conosce e capisce il tempo prima ancora che cambi». «Dai, sai benissimo che questo è il loro lavoro e poi ti hanno avvisato e se gli crei qualche problema la colpa sarà tutta tua. Fai come hanno ordinato e già che ci sei fai controllare che le vele siano ben raccolte e dai una ripulita al ponte di tutto quello che non serve. Ho l’impressione che resteremo qui per qualche giorno in più. 

Padrone Marittimo Innocenzo Barrera

     Dopo il crepuscolo il buio ha subito inghiottito il “Luisa Madre”. Il vento ha aumentato la sua intensità e qualche maroso riesce a salire sul veliero da poppaLe scariche elettriche vanno da una parte all’altra del cielo, sempre più vicine. L’intervallo fra il flash e il tuono si fa sempre più breve. La tempesta si avvicina. Al timone c’è di nuovo Salvatore Lazzaro. «Comandante, comandante», urla il marinaio. Salesi, come un gatto, salta i tre gradini che lo separano dalla coperta e, appena mette il naso fuori, immediatamente si rende conto che il vento è cambiato. Da scirocco, quasi improvvisamente, spira da SO, da libeccio. Ha preso ancora più forza. Burrasca forte (forza 8). Con un vento che supera i 40 nodi, il mare ha onde molto alte, con le creste rotte e spruzzi d’acqua che riducono la velocità. Alla luce dei lampi il contrasto tra la schiuma delle onde ed il mare come il nero di seppia fa paura. Non si vede altro. Il bompresso è appena visibile e sembra quasi voglia infilzare quel mare orrendoSi ha l’impressione di sentire tante voci che urlano attorno alla nave. Sembrano le urla di terrore dei marinai morti in mare ma è solo il vento che, ostacolato dal sartiame, fischia e genera queste lugubri fantasie. Il brigantino, nonostante l’età, è solido e con quella velatura ridotta anche gli alberi e le manovre non sono particolarmente sotto sforzo, la sentina è asciutta e la terra ferma non deve essere molto lontana. 

     Giovanni Salesi sa quali sono i pensieri che passano per la mente dei suoi uomini. «Forza gente. Un ultimo sforzo. Fra poco vedremo la luce della Lanterna e saremo al sicuro. Cambiamo muraTurì, va con gli altri. Prendo io il timone». Il bastimento naviga con la sola vela di mangiavento e la trichettina e il cambio di mura fu rapido. I ventisei metri di lunghezza della “Luisa Madre” stavano per intero nel cavo dell’onda e, quando non surfava, si trovava fra due mura d’acqua, uno davanti e l’altro dietro. I flash si ripetevano uno dietro l’altro e tutto si muoveva al rallentatore. Salesi teneva il timone saldamente e quasi preferiva governare lui la sua nave e intanto pensava alla manovra per entrare in porto senza l’assistenza di un rimorchiatore e senza il pilota visto che la sua nave non era attesa. Non importa. Conosceva quel porto quasi meglio dei piloti che vi operavano tante erano state le volte che vi aveva approdato. Entrava da ponente, però. La costruzione del nuovo molo non era stata ancora completata e, quel lato, l’aveva navigato sempre in uscita e con il rimorchiatore. Poco importa. Sicuramente abbiamo già passato Genova. Quando a Est avvistiamo la luce della Lanternaconsiderato che navighiamo per NO, e arriva al nostro traverso accostiamo e la puntiamo di prua e poi ci orientiamo con i fanali del molo. Mentre faceva queste considerazioni, per un attimo, ebbe l’impressione di non sentire più il timone. Fu un attimo ma sufficientemente lungo da preoccuparlo. La stessa impressione che si prova quando cammini in coperta mentre viene lavata e il sapone non è ancora stato risciacquato. I piedi perdono aderenza e, se non ti reggi a qualche draglia o a qualche passamano, scivoli. Sente nuovamente la resistenza del timone. Mah, sarà stata un’impressione.  

     Già dopo il tramonto, i pescatori di tutta la riviera ligure, a levante e a ponente di Genova, avevano tirato in secco le barche allontanandole quanto più possibile dalle spiagge. Conoscevano benissimo gli effetti disastrosi di libecciate come quella che stava per arrivare.  

     Alle 20,15 il piroscafo greco Michael, ormeggiato alla Calata San Giorgio, manda un marinaio alla Torretta del Molo Guardiano, sede della corporazione Piloti. A causa del forte vento e nonostante avesse rinforzato gli ormeggio come ordinato dalla Capitaneria, ha problemi con i caviDue dei quattro di poppa si sono spezzati improvvisamente e, come un colpo di frusta, si sono abbattuti sulla nave. Fortunatamente non c’era nessuno nei paraggi ma bisogna subito sostituire i due cavi prima che gli altri due rimasti, per l’aumento improvviso del carico possano spezzarsi anch’essi. Il capitano Giacomo Castelletto, pilota, chiama un marinaio e un motorista e, saltato sulla motobarca Margherita, si dirige verso il bastimento a vapore in difficoltà. Il Michael stava mettendo in pressione le caldaie nel caso fosse necessario lasciare l’ormeggio e il fumo saturo di vapore si stagliava chiaramente contro il cielo nero per l’oscurità e le nuvole cariche d’acqua. La Cooperativa degli Antichi Ormeggiatori del Porto, avvisati dai piloti, manda quattro degli uomini più robusti per contribuire ad assicurare la nave. I quattro partono con una barca a remi da Calata Gadda e, nonostante il vento contrario, ben presto raggiungono la pilotina e il piroscafo. Nel frattempo l’equipaggio della nave era riuscito a rimettere in sicurezza l’ormeggio grazie agli argani di bordo azionati dal vapore prodotto dalle caldaie. Gli equipaggi dei due battelli si scambiano qualche battuta sull’inutilità di quella corsa e si apprestano a tornare alle rispettive sedi.  

     Durante l’ultimo bordo, il “Luisa Madre”, per il forte vento e per l’azione delle onde aveva scarrocciato più del previsto verso levante ma dalla nave non era possibile apprezzarlo. Il comandante non lasciava il ponte. Al timone c’era ora Francesco Nicosia. Sapeva che da un momento all’altro avrebbero avvistato la luce amica che indicava la rotta per la salvezza. La Lanterna, che Salesi si aspettava di vedere a dritta della sua prora, in realtà, l’avvistò proprio davanti a luiDi prora. Non si meravigliò più di tanto. In una tempesta come quella era normale aspettarsi una forte traslazione laterale della nave. «Francè, cerca di orzare un po’. Non possiamo più cambiare bordo perché equivarrebbe a provare ad entrare da levante ma con questo tempo quell’entrata sarà impraticabile. Avviciniamo la prua al vento per andare più a ponente e avvistato il fanale dell’ingresso del Molo Principe Umberto, appena lo rileviamo al giardinetto di dritta basta poggiare velocemente e ci ritroviamo in un batter d’occhio all’interno del Bacino Mussolini, al riparo. Vai, Francè, vai ancora a sinistra». Man mano che la luce si avvicina le onde diventano sempre più alte, segno che il fondale diminuisce. «Natale, chiama i ragazzi». Anche il nostromo era rimasto in coperta. Anche lui preoccupato. Aveva attraversato ogni tipo di tempesta ma questa gli sembrava superarle tutte. Si sporse all’imboccatura della tuga e gridò più forte che poté. Carmelo teneva d’occhio la luce della Lanterna e ogni volta che questa si spegneva o diventava invisibile perché il bastimento sprofondava fra due onde aveva il timore di non rivederla più. Salvatore, con le mani ancora rattrappite per gli sforzi e il freddo del precedente turno di guardia fu il primo a salire in coperta, seguito a ruota da Giovanni Lupo. «Turì, prendi lo scandaglio» ordinò il nostromo. Il marinaio esegue l’ordine, cerca di andare a prua ma il mare non glielo permette. La nave rolla paurosamente. Quando sbanda a sinistra il mare spazza la coperta e l’acqua va via da dritta. Andare a prua significa rischiare di cadere in mare. Anche Natale e il comandante si rendono conto del pericolo. Perdere un uomo in mare in queste condizioni significa condannarlo a morte. «Aspetta, Savvatò, scandaglia da poppa. Il marinaio lancia in mare la sagola con il piombo. Non riesce a capire se tocca il fondo o no. Forse c’è parecchia acqua sotto la chiglia e il peso non pesca. Riprova. Stavolta tocca. Tira su la sagola e comincia a contare. Uno, due, tre…trenta. «Trenta metri, trenta metri» urla per farsi sentire in mezzo a quel frastuono. Adesso, al fischio del vento e al rumore dei marosi, si è aggiunto anche il fragore provocato dalle onde contro la diga esterna del molo. La Lanterna si è spostata verso poppa ma non è ancora al traversoSalesi guarda il marinaio e gli fa segno di scandagliare un’altra volta. Lancio, fondo, recupero. «Ancora trenta, cumannà». Da un momento all’altro dovremmo avvistare il fanale dell’ingresso a ponente. I cinque uomini sono tutti raggruppati a poppa, uno vicino all’altro, un po’ per farsi coraggio ma anche per meglio ripararsi dagli spruzzi parzialmente protetti dalla tuga. Le cerate ormai non proteggono più e non ci sono vestiti asciutti , tantomeno, sarebbe possibile andare a cambiarsi. Fa freddo ma la tensione, le scariche di adrenalina e la speranza hanno reso quei corpi insensibili. «Savvatò, lancia!» Ancora un lancio e un recupero. «Un, due, tre…venti. Venti metri, cumannà». «Vedete qualcosa? Vedete il fanale?» grida Salesi. Gli uomini si sforzano di vedere al di là degli spruzzi ma non si vede nulla. È un attimo. Si sente un rumore secco provenire da sotto i loro piedi e nello stesso istante Francesco Nicosia si rende conto che la ruota del timone gira a vuoto. Da tutta la barra a sinistra e poi prova a dritta. Niente il bastimento non risponde e il timone sembra la ruota di un carro lanciato a tutta velocità. «Cumannàcumannà, abbiamo perso il timone. Non governo più!» Salesi, che fino a quel momento sembrava tranquillo, sbianca in viso e agguanta quel timone impazzito cercando di riprendere il controllo della sua barca. Non pensa a nulla in quel momento. Mette in atto, meccanicamente, tutte le cose che ha appreso in quarant’anni di mare ma non si era mai trovato in una situazione simile. Mai. Il brigantino goletta, carico di carrube, partito da Pozzallo con cinque uomini di equipaggio naviga in mezzo ad una terribile libecciata con il mare a sinistra e la terraferma alla sua dritta ma è senza governo. Nostromo e comandante, a questo punto, ordinano all’equipaggio di tentare a manovrare usando le vele. Opportunamente orientate, le vele, possono permettere una qualche forma di governo ad un’imbarcazione senza timone. 

     Prima ancora che il motorista della pilotina potesse dare gas per tornare alla Torretta del Molo Guardiano il comandante Castelletto ebbe la netta impressione di sentire delle grida. Istintivamente guardò verso il piroscafo immaginando un altro problema agli ormeggi ma a bordo era tutto tranquillo. Anche il marinaio e i quattro ormeggiatori ebbero la stessa impressione e si guardavano intorno. Guardando verso la diga ebbero una fulminea visione. Una enorme onda aveva sollevato un brigantino e fra il turbinio degli spruzzi prodotti dall’infrangersi delle onde contro i blocchi del molo, nitidamente erano visibili gli alberi con alcune vele lacerate e quattro uomini aggrappati ai pennoni. «Aiuto! Aiuto! Ehi del battello salvateci! Aiuto!» Nonostante il fragore delle onde, le voci di quei quattro, trasportate da quel vento assassino, si udivano distintamente. In un istante il brigantino sì abbassò sparendo dalla vista e si udì un colpo secco, come l’esplosione di una mina subacquea e poi più niente. Né la pilotina né la barca degli ormeggiatori avevano con sé mezzi di salvataggio. Castelletto ordina al timoniere di mettere il motore al massimo per raggiungere prima possibile la base piloti e dare l’allarme. Arrivati al Molo Guardiano, Castelletto, ordinò al motorista e al marinaio di mettere sulla barca salvagenti e corde e, correndo, spalancò la porta della saletta piloti dove c’era il telefono. Chiese all’operatrice di metterlo subito in contatto con la Capitaneria a Ponte Morosini«Capitaneria» rispose il piantone. «Sono il comandante Castelletto dei piloti. Chiama subito l’ufficiale d’ispezione e digli che un veliero si è fracassato contro la diga del Principe Umberto all’altezza del Ponte Rubattino. Io cerco di fare qualcosa. Fai Presto.» Il piantone va in saletta ufficiali. L’ufficiale d’ispezione, il tenente Lomi chiama subito il colonnello Garbi, il comandante in seconda, tenente colonnello Garoli ed il comandante Casabona del Consorzio autonomo. Castelletto, intanto, saltato a bordo della sua pilotina, parte a tutta forza verso Ponte Rubattino dove ha lasciato i quattro ormeggiatori. 

     Sono le 21,30. Mezz’ora da quando gli uomini del “Luisa Madre” hanno chiesto aiuto. Da Ponte Morosini il rimorchiatore “Brennero”, comandato dal maggiore cav. Rocco Merlico, con i primi nocchieri Salvatore Zolesi e Nicola Arena, i marinai Silvio Ridolfi e Vincenzo Vitale parte congiuntamente alla pirobarca del Consorzio Autonomo del Porto con il capitano Giuseppe Cirono, il sott’ufficiale Decio Mercoli ed il macchinista Giuseppe Rando. Le due barche, arrivate nel punto indicato, costeggiano dall’interno la diga Principe Umberto e cercano di uscire da levante per portarsi nel luogo indicato e soccorre l’equipaggio del brigantino. La pilotina e la barca degli ormeggiatori, intanto, cercavano di avvicinarsi al molo per lanciare salvagenti e corde al di là della diga ma le onde, che superavano di parecchi metri lo sbarramento, riversavano tonnellate di acqua all’interno del bacino. Le due barche rischiarono di essere affondate pur restando a più di 25 metri dal molo e dovettero resistere. Anche il rimorchiatore e la pirobarca, giunti all’imboccatura del molo, furono respinti. Il “Brennero” provò, allora, ad uscire da ponente verso Sampierdarena. I naufraghi potevano ancora essere in balia della risacca. Fu costretto a fermarsi all’altezza dell’idroscalo e a tornare indietro. 

     Il “Brennero” era un piccolo rimorchiatore portuale. In quelle condizioni, forse, se fosse stato disponibile, un rimorchiatore d’altura attrezzato per il recupero di naufraghi qualcosa si sarebbe potuta fare quei poveri marinai.  

     Il colonnello Garbi, informato dei fallimenti dei soccorsi, non sembrava volersi rassegnare ad abbandonare le ricerche. Sapeva che, a quel punto, le ricerche avrebbero avuto ben poche possibilità di trovare qualcuno in vita ma era fermamente deciso a provare tutte le possibili opzioni. Il Regio Esploratore Venezia era ormeggiato a Calata Macalè e gli fu ordinato di accendere i suoi potenti riflettori per illuminare il Molo Principe Umberto. La stessa cosa fu ordinata alla Milizia Portuale. Anche i riflettori dell’idroscalo furono messi in funzione. Il Molo era illuminato a giorno. I marinai di guardia al semaforo dell’Istituto Idrografico furono messi a scrutare il mare nella speranza di avvistare qualcuno dei naufraghi e li restarono fino alle prime luci dell’alba. Nessun avvistamento. Nessuna traccia di quegli uomini che disperatamente chiedevano aiuto. Quella notte stessa uomini furono comandati a cercare sulle spiagge tracce del naufragio o di possibili naufraghi che miracolosamente fossero riusciti a scampare al tremendo urto. Niente. Solo carrube. Una gran quantità di carrube. Domenica mattina un pescatore trova il pezzo di una lancia di salvataggio di colore celeste con scritto “Madre”. I corpi dei cinque marinai non furono mai ritrovati.  

Padrone Marittimo Giovanni Salesi di Pozzallo 

Nostromo Natale Galazzo di Pozzallo 

Marinaio Salvatore Lazzero di Scoglitti 

Marinaio Francesco Nicosia di Scoglitti 

Mozzo Giovanni Lupo 

Mozzo Carmelo Catania 

Genova, sabato 28 febbraio 1931 

©Antonio Monaca

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