Piroscafo Multedo

     A metà del XIX secolo, una famiglia di Riposto (CT), proprietaria di estesi vigneti, decide di mettersi in proprio anche per il trasporto della sua produzione di vino e di mosti verso il porto di Genova. I vini del nord Italia, ma anche quelli francesi, da sempre sono stati tagliati con i mosti più corposi provenienti dal sud Italia e dalla Sicilia in particolare. I mosti e i vini prodotti alla base dell’Etna sono particolarmente interessanti perché la presenza di terra fertilissima e di sole intenso aumenta la quantità di zuccheri delle uve facendole diventare perfette per tagliare i deboli vini del nord. Perché affidarsi ad armatori ripostesi o genovesi quando si è nella possibilità economica di formare una piccola flotta e gestire in autonomia il trasporto della propria produzione? La massimizzazione dei ricavi e la possibilità di sfruttare il fiorente commercio fra Sicilia e Liguria sono i presupposti che hanno portato alla nascita di uno dei gruppi armatoriali più importanti nella storia della nostra Marina Mercantile. Giuseppe Messina nell’ultimo decennio del XIX secolo delocalizza parte delle sue attività a Genova dove si trasferisce definitivamente alla vigilia della prima guerra mondiale e dove, assieme ai parenti Tabuso, fonda la società armatoriale “Giuseppe Messina Tabuso”.

      Un armatore ha bisogno di equipaggi e non è facile trovare gente di mare preparata e disponibile, soprattutto a Genova dove c’è una grande richiesta e la concorrenza non è solo sui commerci ma anche “sull’accaparramento” dei migliori equipaggi. Inoltre, piano piano, la rivoluzione portata dall’utilizzo dei motori a vapore anche sulle navi sta, progressivamente, portando all’abbandono della vela a favore dei piroscafi. Ecco, quindi, la nascita di nuove figure professionali molto richieste ma più specializzate rispetto a quelle presenti sulle navi a vela dove bisogna solo obbedire agli ordini impartiti dal nostromo per orientare e organizzare le vele.

     Il governo Giolitti, nel 1911, inizia la campagna di Libia per instaurare una colonia italiana in Tripolitania e in Cirenaica. La presenza sempre maggiore di truppe italiane e del personale civile di supporto, richiede rifornimenti costanti che vengono inizialmente garantiti dalla Regia Marina. Agli inizi del secondo decennio del XX secolo le navi militari non bastano più e Giuseppe Messina approfitta della situazione e nel 1921, con il piroscafo “Angelina”, istituisce una linea fissa tra Genova e la Libia. Tutti i suoi sforzi si concentrano su questa nuova attività ed è proprio nel 1921 che il figlio Ignazio inizia ad occuparsi attivamente degli interessi della società che avrebbe preso il suo nome. L’espansione della flotta richiede un numero sempre maggiore di personale che il bacino genovese non è più in grado di offrire. Un armatore siciliano dove può trovare marinai esperti? In Sicilia, ovviamente e non solo a Riposto.

     Una delle marinerie più attive e più professionali d’Italia è quella pozzallese. I marinai pozzallesi, dal semplice mozzo fino al più esperto Capitano di Lungo Corso, sono conosciuti per le loro capacità professionali e si sono facilmente riconvertiti nei nuovi ruoli richiesti dalla meccanizzazione a vapore. Già alla fine del 1800 marinai pozzallesi sono imbarcati su piroscafi che girano il mondo. Nel 1902 sette pozzallesi fanno parte dell’equipaggio del piroscafo “SS. Roraima”, battente bandiera americana (https://www.monaca.rg.it/2022/05/11/il-vulcano-la-pelee-e-i-marinai-pozzallesi/) coinvolto nell’eruzione del vulcano La Pelee alla Martinica, per esempio. I pozzallesi, inoltre, sono di casa a Genova per gli intensi traffici che si svolgono fra questi due porti. Presto si sparge la voce che il nuovo armatore è alla ricerca di personale per le navi della sua flotta. Contratti economicamente interessanti e, soprattutto, navigazione nel mediterraneo, vicino casa.

     I traffici di Messina diventano sempre più intensi. Nel 1930, l’armatore, acquista da un armatore genovese, Industrie Navali S.A. conosciuto come INSA, un mercantile costruito nel 1884 per un armatore tedesco di Lubecca. Il nome della nave viene cambiato in “Multedo”, dall’omonimo quartiere di Genova sede della “Fonderia Multedo” a servizio dei cantieri dell’Ansaldo di Sestri Ponente. Nonostante l’età, la nave è in condizioni accettabili e funzionale ad una navigazione di cabotaggio fra Genova e la Sicilia ma anche fra Italia e Libia. Con l’inizio della seconda guerra mondiale la nave non viene requisita, come avviene invece per gran parte del naviglio mercantile italiano e continua la sua attività di linea con la Libia diventando parte integrante del sistema logistico delle forze armate italiane impegnate in nord Africa.

     Alla fine del mese di gennaio del 1941, la “Multedo” si trova ormeggiata nel porto di Bengasi. Gli alleati stanno provando a conquistare la Cirenaica con ottimi risultati. La caduta di Bengasi è data per certa. Italiani e tedeschi cercano di sottrarre al nemico mezzi, munizioni, carburante e ricambi. La “Multedo” viene caricata con carburante ed esplosivi. E’ il 3 febbraio 1941. Alle cinque di pomeriggio, lascia il porto di Bengasi diretta a Tripoli. Con la “Multedo” anche la pirocisterna “Utilitas” e il piroscafo “Giovinezza” partono per la medesima destinazione. Le tre unità mercantili formano un piccolo convoglio scortato dalle torpediniere “Cigno” e “Centauro”.

La Torpediniera Cigno

     Il convoglio esce dal porto, viene preso in carico dalla scorta e si allontana dai campi minati dirigendosi verso la sua destinazione. Navigazione è breve ma bisogna attraversare il Golfo della Sirte e si temono agguati di sommergibili inglesi. La luna è in fase crescente e, tramontando intorno alle 22, non sarà sufficientemente luminosa per rischiarare il tratto di mare che il convoglio deve attraversare rendendo più difficile l’individuazione da parte di un eventuale sommergibile. Anche le condizioni meteo, con mare grosso, sono un vantaggio per il convoglio.

     A bordo della “Multedo”, un ragazzo di 17 anni compiuti da appena un mese, è imbarcato probabilmente come mozzo perché i minori di 18 anni non possono essere adibiti ai servizi di macchina e per lo stesso motivo non è stato ancora arruolato nelle forze armate. Salvatore è nato a Pozzallo, in via Bagni 45 (oggi via Saffi), il 2 gennaio 1924, figlio di Giovanni Favara e Gregoria Nacarano.

Il convoglio naviga a zig-zag seguendo le indicazioni della scorta. Le condizioni del mare non sono certo ottimali. La “Multedo” sente il peso degli anni. In teoria le sue caldaie sono in grado di sviluppare una potenza sufficiente per far andare la nave a circa 11 nodi. La realtà è ben diversa. La nave durante le frequenti accostate fatica a mantenere il passo con le altre navi. Il mare grosso sottopone il timone a sforzi intensi e anche l’elica risente dell’azione disturbatrice del moto ondoso che sottopone la nave a forti movimenti di rollio e di beccheggio. Il comandante ordina una riduzione dei giri dell’elica. Il mare da NW ha generato onde molto formate e la nave trovandosi sulla cresta di una di queste si ritrova per qualche secondo con l’elica parzialmente fuori dall’acqua. La diminuita resistenza fa aumentare improvvisamente il numero di giri e l’asse e gli organi di trasmissione iniziano a vibrare al punto da provocare, con una reazione a catena, il blocco del motore.

     Il convoglio, intanto, si è allontanato e nonostante i segnali fatti dalla “Multedo”, nessuno si accorge delle difficoltà della nave. La radio non può essere usata per evitare di essere intercettati dal nemico. Bisogna risolvere velocemente i problemi in sala macchine e riprendere la navigazione. Al pericolo rappresentato da un bersaglio fermo si aggiunge quello del mare grosso forse ben più temibile di un sommergibile inglese.

     In effetti un sommergibile nemico è in agguato in quelle acque. Gli inglesi navigano in superficie nascosti dal buio della notte, pronti ad immergersi appena avvistato un possibile bersaglio. L’HMS Truant con i suoi 10 tubi lancia siluri sa che italiani e tedeschi hanno la necessità di evacuare Bengasi e la via più breve per Tripoli è proprio la sua zona di caccia. Ha già attaccato la nave passeggeri “Calino” il 3 febbraio a NW di Bengasi. Dopo l’avvistamento si è immediatamente immerso e portato in posizione di attacco. Grazie ai suoi motori elettrici da 1450 cv ciascuno riusce a raggiungere una velocità di 9 nodi in immersione che gli permettono di avvicinarsi ai bersagli molto velocemente. Quel giorno, però, il moto ondoso non aiuta. Il comandante, al periscopio di combattimento, fa i suoi calcoli balistici e ordina il lancio dei siluri dei tubi 1 e 2 di prua.

HMS Truant

     Il mare non agisce solo sulle navi. Anche i siluri risentono del moto ondoso. Bersaglio mancato. I due siluri passano a poppa della “Calino” e, esaurita la carica, si inabissano. Il comandante del sommergibile ordina un’accostata a sinistra per aggiustare il tiro, lancia il siluro del tubo 3 ma anche questo manca il bersaglio. Inutile proseguire la caccia. La nave avrà visto le tracce dei siluri e chiederà aiuto. Immersione dalla quota periscopica a 90 metri, anche per dare un po’ di sollievo all’equipaggio tormentato dal mal di mare.

     Il 4 febbraio, il Truant, riprende la caccia. Quota periscopica. Viene avvistata la pirocisterna “Utilitas”. Apparentemente non ci sono altre navi. Le condizioni del mare e la visibilità ridotta dagli spruzzi delle creste delle onde non sono certo ottimali. C’è un vantaggio, però. Se il sommergibile non vede navi di scorta, queste non vedranno sicuramente il suo periscopio. Ancora una volta il comandante cerca la migliore posizione di lancio e spara altri tre siluri. Mentre abbassa il periscopio e ordina l’immersione alla quota di trenta metri, comincia il conto alla rovescia. I secondi passano e viene superato il tempo previsto per l’impatto. Gli idrofoni segnalano il rumore delle eliche dei siluri in allontanamento fino a quando non vengono più rilevati. Nessuna esplosione. Bersaglio mancato.

     E la “Multedo”? Che fine ha fatto? Il convoglio l’ha persa e non può tornare indietro a cercarla. Se è rimasta vittima di un sommergibile nemico non si può rischiare di perdere altre navi. Stessa cosa se ha dei problemi tecnici. Il carico di ogni mercantile è più prezioso anche della vita degli uomini che lo trasportano. L’HMS Truant non l’ha avvistata. Non può essere incappata su una mina perché sono lontani dai campi minati di Bengasi e, considerato il carico di esplosivi e carburante, una eventuale esplosione difficilmente può passare inosservata.

     L’abbiamo lasciata in difficoltà per lo spegnimento del motore. Una delle condizioni più temibili per una nave in cattivo tempo è il blackout. Mentre le navi a vela, anche nelle peggiori tempeste, riescono sempre ad avere un minimo di governo, la stessa cosa non può dirsi per una nave a motore che perde la sua propulsione. Sotto l’effetto del mare e del vento la nave tende a traversarsi ad offrire, cioè, il fianco al mare. È quello che è successo al mercantile di Ignazio Messina con a bordo il diciassettenne Salvatore Favara. Mentre il personale di macchina cerca di rimettere in funzione il motore, il personale di coperta, messo in allerta dal comando, inizia a capire la pericolosità della situazione. Salvatore ha gli occhi sbarrati. Legge sul viso degli altri marinai la paura. Indossa il salvagente e cerca di nascondere il terrore che lo avvinghia sempre più forte. Sul ponte, con il telefono a dinamo, il comandante implora il direttore di far ripartire quei pistoni. Quell’improvviso aumento dei giri dell’elica ha danneggiato il sistema di trasmissione e con quel rollio non è facile rimediare ad un guasto così complesso, su una nave di quasi sessant’anni e senza pezzi di ricambio.

     La “Multedo” non è una petroliera. Il carburante che trasporta è contenuto in barili caricati nella stiva. Sono stati rizzati come l’arte marinara prescrive ma le condizioni di rollio a cui è sottoposta la nave in questo momento sono eccezionali. Una delle cime usate per il rizzaggio dei barili di benzina è più usurata del normale. Durante una sbandata, sottoposta ad un improvviso aumento di carico si spezza. I barili che trattiene sono liberi di muoversi e “precipitano” sul fasciame della nave incrinando leggermente la lamiera. Nel loro rotolamento coinvolgono altri barili che, liberatesi anch’essi del loro rizzaggio, cominciano a spostarsi da una fiancata all’altra della nave. Bastano pochi minuti. La lamiera incrinata è diventata una falla. Sotto l’urto dei pesanti fusti di benzina anche qualche costola della nave viene danneggiata. Nessuno dell’equipaggio si è accorto della via d’acqua che si è formata e che si allarga sempre più ogni volta che un’onda fa sbandare la nave. Al peso dei barili liberi si aggiunge quello delle tonnellate di acqua che si riversano nella stiva. Quando il comandante si rende conto che la nave non ritorna in posizione diritta dopo una rollata è troppo tardi. La nave è in una condizione di instabilità tale che basta una piccola spinta ulteriore per farla capovolgere. Nave ingavonata.

     Abbandono nave! Abbandono nave! Urla il comandante. Troppo tardi. Quando l’onda successiva sbatte contro il fianco della nave è troppo tardi. È troppo tardi per i macchinisti che non fanno in tempo a venir fuori dalla sala macchine. È troppo tardi per il personale di coperta che aperti i portelloni di coperta vengono ricacciati dentro dall’acqua che irrompe dentro la nave. È troppo tardi per il personale di guardia sul ponte di comando perché in un attimo si trova sott’acqua. La “Multedo” si è capovolta e rapidamente affonda trascinando nella sua agonia gli uomini che la governano.

     Il ragazzo diciassettenne, Salvatore Favara, cerca con tutte le sue forze di uscire da quella bara di ferro. Immagina di aver fatto un tuffo “o puzzagnulu porcelli ra valata”. Trattiene il fiato cercando di trovare una via d’uscita ma è buio. Il salvagente lo ingombra. Urta gli altri uomini che come lui annaspano in preda alla mancanza d’aria. Perde le forze. Trova una bolla d’aria e cerca di respirare ma è inutile perché viene sommerso dall’acqua. Non ci sono uscite. La pressione aumenta. Il dolore ai timpani è fortissimo. Non sente nulla quando si rompono. È già incosciente. Muore, lontano da casa, dalla sua mamma e dal suo papà, dai suoi amici, dagli scogli della sua “valata”. Muore solo, nell’acqua fredda e buia del ventre di una nave che avrebbe dovuto garantirgli un futuro di agiatezza. Da 81 anni riposa da qualche parte sul fondo del Golfo della Sirte senza che nessuno che si ricordi di lui.

©Antonio Monaca

2 pensiero su “Salvatore Favara e il piroscafo Multedo”
  1. Buonasera
    Sul piroscafo Multedo c’erano altri marittimi siciliani
    Benzante Vincenzo, marinaio, Agrigento-Porto Empedocle
    Casablanca Francesco, marinaio fuochista, Catania
    Comisi Lorenzo, marinaio, Catania
    Cosenza Angelo, 1° Ufficiale, Messina
    Currò Giuseppe
    Fresta Sebastiano, mozzo, Riposto
    Geraci Giuseppe, comandante, Pachino
    Lo Presti Stefano, marinaio, Catania
    Maugeri Giovanni, 1° macchinista, Catania
    Rinaldi Giovanni, marinaio fuochista, Messina
    Scuderi Natale, cuoco, Catania
    Strano Salvatore, marinaio fuochista, Catania
    Strano Santo, marinaio, Catania
    Zichichi Michele, capo macchinista,Trapani

    1. Grazie per la puntualizzazione. Quanto scritto fa riferimento solo a marinai pozzallesi ed è solo un appunto sulle vicende descritte che ho voluto rendere pubblico per ricordare alle nuove generazioni che dietro il benessere di cui oggi beneficiano c’è un retroscena fatto di duro lavoro e di continui sacrifici. In mare, poi, non c’è provenienza, non ci sono “campanili” ma uomini che, pur avendo provenienze, storie e culture diverse sono impegnati per raggiungere un unico scopo: arrivare in porto sani e salvi, con la nave e il carico integri perché da questo dipende la sopravvivenza delle loro famiglie. Ancora grazie per il commento.

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