Coincidenze. Oggi le chiamiamo coincidenze ma non era così cento anni fa. Non lo era perché la spiritualità era molto più presente di oggi e, forse, si guardava agli eventi con meno filtri di quelli che oggi appannano i nostri occhi. Fatti, eventi, vicende che s’intrecciano, s’intersecano in modo casuale. O la casualità è solo apparente? E se, invece, il caso non c’entra? E se forze misteriose dirigono gli eventi secondo un filo conduttore che non può essere spezzato e quando questo avviene tutto deve essere modificato perché il “filo” riprenda il suo indirizzo. È come quando imposti un tragitto sul navigatore e durante il viaggio cambi strada per errore e lui ricalcola il percorso proponendo un nuovo itinerario per arrivare a destinazione. Puoi prendere tutte le deviazioni che vuoi, tutte le volte che vuoi e, ogni volta, tutto viene ricalcolato. Non puoi sfuggire al ricalcolo. Qualcuno lo chiama “destino”, “u ristinu”, ma il risultato è sempre lo stesso: arrivare a destinazione. E non siamo noi a scegliere la destinazione così come, pur cercando di cambiarla, non possiamo eluderla.
Inverno 1920 Canale di Sicilia
Un bastimento naviga in mezzo ad una tempesta fra Trapani e Sciacca. È un barco[1] italiano, siciliano, di Pozzallo. L’equipaggio è in pericolo. Il mare assedia il brigantino[2]. Onde che sembrano provenire da tutte le parti cercano di sommergere la nave e pare vogliano addentare, ruggendo, i marinai che cercano in tutti i modi di manovrare per salvare il legno ma anche e, soprattutto, se stessi. Finalmente riescono a mettersi alla cappa[3]. Gabbia tutta terzaruolata[4], su la mezzana[5] e la trinchettina di fortuna[6]. In questo modo la prua soffre di meno anche se la nave tende a sbandare[7] maggiormente ma riesce a tenere meglio il mare. A poppa il timoniere è quasi aggrappato alla ruota del timone e cerca di assecondare vento e mare. Ogni marinaio, in cuor suo, prega. Nel buio della notte, ad ogni lampo che squarcia il cielo, occhi spaventati scandagliano l’aria carica di spruzzi salati alla ricerca di luci che potrebbero indicare una via per la salvezza. Agli spruzzi si è aggiunta una pioggia intensa, sferzante, fredda. Le incerate faticano a drenare l’acqua e gli uomini sentono l’umidità penetrare attraverso la pelle per infilzare ossa spesso già intaccate dagli anni trascorsi in mare. Un groppo, un colpo di vento improvviso e forte, strappa la trinchettina. La nave resta solo con la mezzana di fortuna e inizia ad indietreggiare. Il timone è sotto sforzo e il timoniere cerca di evitare che si danneggi assecondando quel mare che sembra abbia voglia di divorarli.
Fra quegli uomini impauriti, un marinaio, reggendosi ad una manovra[8], si segna ripetutamente. Salvatore Scala ha sentito parlare di un santo venerato proprio sulla costa davanti alla quale si trovano. A Sciacca, in particolare, è considerato un potente taumaturgo ed ha sentito dire che spesso, quando invocato con cuore sincero, ha avuto pietà di marinai in pericolo ed è intervenuto chiedendo a Dio di salvare quei poveri uomini spesso in procinto di morire. San Calogero. Un santo monaco eremita dalle origini misteriose, eppure così rispettato e invocato dalle genti di Sicilia. Salvatore, ripensa alla moglie incinta, giunta a metà gravidanza e gli occhi bagnati dagli spruzzi salati si bagnano ancora di più ma di salsedine umana. Mentre le lacrime scendono e si fondono con l’umidità del mare, con il cuore in gola, con forza e disperazione urla una promessa al Santo sconosciuto. «Aiutini. T’apprummintu ca se ni salvamu u figghiu ca a nasciri u ciamu comu a ttia, Calogero!»[9]
È il caso di dubitare della mediazione dei santi quando riconoscono un cuore pentito e fiducioso? Lentamente il vento iniziò a diminuire anche se il mare restava grosso ma ora la nave era governabile. Si poteva mettere su qualche vela per provare a cavalcare il mare. Lottarono tutta la notte per mantenere la prua in rotta ed evitare di essere avviluppati dalle onde e al crepuscolo finalmente capirono di essere in salvo. Vento teso ma non più furioso. Cielo nuvolo ma senza pioggia. Mare agitato ma non tempestoso.
«Controlliamo la nave, picciuò[10]» ordina il comandante. Qualcuno va a prua a controllare il bompresso[11], altri si arrampicano sugli alberi per verificare lo stato dei pennoni[12] e le vele, qualcun altro va giù nella stiva per controllare che sia asciutta. Qualche danno l’ha fatto quel demone infernale che si era scatenato nel corso della notte ma non è riuscito a portare a termine il lavoro. San Calogero è intervenuto e l’ha ricacciato nel profondo dell’inferno come tante volte aveva fatto quando lo tentava durante le notti nel suo eremitaggio. Quelle anime sono salve e se il demonio non è riuscito a ghermirle vuol dire che sono destinate a Dio. Questa convinzione si fece strada nella mente di tutti quei marinai. Appena Salvatore ha fatto quella promessa tutto è cambiato. San Calogero li ha salvati!
“Rachela”, intanto, a Pozzallo, non sa nulla di quella notte e niente saprà fino a quando il marito non farà ritorno a casa.
Primavera 1920 Pozzallo
Il brigantino, dopo un altro viaggio, arriva a Pozzallo. Ha da caricare carrube per Genova. Getta l’ancora davanti alla sentinella della città, “a turri”[13], e con le piccole lance alcuni uomini scendono a terra. Salvatore Scala ha ultimato il suo contratto. Qualcun altro prenderà il suo posto sul brigantino. Lui va a festeggiare la S. Pasqua con la sua famiglia e spera che il figlio non sia ancora nato. “Ma no, no, non può essere nato. Ho fatto bene i conti. Siamo vicini ma non è ancora nato” pensa fra sé e sé. Deve faticare ancora un po’. Forza coi remi. Voga, Turiddu[14], voga. Quelle poche centinaia di metri sembrano centinaia di miglia.
Solitamente la settimana prima della Domenica delle Palme Pozzallo è immersa in giornate di sole e senza vento. L’acqua scivola sotto la chiglia della piccola lancia senza far rumore e ad ogni colpo di remi la prua s’impenna cercando di “salire” sul mare. L’acqua è così limpida che, nonostante i circa sei/sette metri di profondità, si vedono le piccole ondulazioni della sabbia provocate dalle correnti. «Turì, pianu, pianu» gli urla il capitano, «arruammu»[15]. La lancia era a pochi metri dalla testa “ro ponti”[16]. Salvatore, che dà le spalle alla terra ferma, mette in acqua il remo alla sua sinistra e aumenta la vogata con quello di destra e la lancia vira velocemente. Appena ha la testa del pontile di pietra alla sua destra, manovra e, magistralmente, blocca la lancia proprio in corrispondenza dei piccoli scalini che permettono al capitano di scendere senza bagnarsi i piedi.
Scendono tutti. Salvatore è l’ultimo. Recupera la sua sacca da marinaio che contiene tutto il suo “tesoro”, prende una cima e la lega alla bitta di pietra. Lancia in sicurezza. Frettoloso scambio di saluti con il capitano e via verso casa. Il piccolo pontile, intanto, si era riempito di ragazzi, marinai giovani e vecchi e di qualche curioso. Oggi la piazzetta antistante il pontile è più frequentata del solito. Nella vicina chiesa di Portosalvo sono iniziati i preparativi per la Settimana Santa che culminerà con il Venerdì Santo e la festa di Maria SS.ma Addolorata e la Pasqua subito dopo. Salvatore corre. Saluta qualche amico, qualche conoscente e corre. Attraversa l’ampia piazza, imbocca l’allora via Enrico Giunta salutando quanti incontra lungo la strada. «Uè, Turì, a ca sbarcasti ora?[17]» gli grida un amico che sta sull’uscio della Società Marinara. Salvatore alza la mano in segno di saluto e continua la marcia. Si la marcia. Quasi fosse un bersagliere.
Bella giornata di primavera. La tempesta affrontata sembra un ricordo lontano. Prova una sensazione strana ad essere sulla terra ferma. È sicuro che chi lo guarda camminare pensi di vedere uno che ha bevuto vino a colazione e aumenta il passo. Passa accanto alle possenti mura “re maizzè”[18], oltrepassa “a Valata[19]” e finalmente “Raianzinu”[20]. Immediatamente gli occhi cercano un riferimento conosciuto. Da buon marinaio è abituato a cercare “punti cospicui” che gli servano per orientarsi. Eccola. Eccola lì la casa “ro cavaleri Papa[21]”. Segna l’inizio della sua strada. Quella in cui è nato e dove, a casa, Rachele lo aspetta. Via XXIV Maggio, civico 19. Non è abituato a camminare. È stanco. Forse, però, è stanco per la “marcia forzata” alla quale ha sottoposto le gambe. All’angolo della casa “ro cavaleri Papa” si ferma. Trenta secondi. Riprende fiato. Guarda il mare che riluce dei riflessi del sole già alto e riparte. Ora è a casa. Percorre la “sua” strada godendosela tutta. All’incrocio di via Garibaldi, “Micheli[22] Barrera”, padrone marittimo e armatore, dall’alto della sua “ciappetta”[23] gli fa un cenno con la mano e Salvatore gli risponde «s’abbenerica zu Miché, arrivammu ora[24]» e il padrone Michele Barrera gli risponde «vai, vai, Turì ca t’amugghieri aspetta a ttia pi patturiri[25]». Nelle parole di Michele Barrera, un orecchio attento avrebbe colto una velata invidia. Con la moglie, Maddalena, anche lei Barrera, si erano sposati dieci anni fa e non avevano ancora avuto figli. Maddalena ha già trent’anni e se non ha avuto figli a vent’anni figuriamoci a trenta. Quelle parole, però, fanno sorridere Salvatore. Era certo che la moglie non avesse ancora partorito e poi, San Calogero, non poteva permetterlo. Quel nascituro gli apparteneva.
Dagli scogli “ro bagnu o signuri[26]” la via XXIV Maggio era leggermente in salita fino a circa cinquanta metri dalla via Garibaldi e poi scendeva fino a casa sua che distava da questa piccola collinetta altri 80 metri circa. Passa la casa “ri Marietta a Ona[27]”, e inizia a scendere. Ora vede casa sua. Saluta “Vicienzu Susinu[28]” che ha anche lui la moglie incinta e continua fino a che non vede la sua Rachele che, come per un presentimento, era uscita proprio in quel momento con quel suo pancione ben in vista. Indescrivibile incontro. Salvatore quasi singhiozza perché ora ricorda i pensieri che lo avevano assalito durante quella tempesta. Abbraccia la moglie come se dovesse lasciarla ancora per non rivederla mai più. «Trasi, trasi, Rachè. U picciriddù?[29] Quannu nasci?» Tempesta la moglie di domande e mai le dà il tempo di rispondere. Ha sete. La corsa gli ha seccato la gola. Prende il secchio, esce fuori, “u cala na stenna[30]”, lo tira su pieno d’acqua e lo porta in casa. Rachele è al settimo cielo. Sperava che il marito tornasse prima del parto e, ora, non smette di guardarlo. Salvatore prendendo un bicchiere e riempiendolo direttamente dal secchio comincia a bere e arrivato a metà si ferma, guarda Rachele che nel frattempo si è seduta e le chiede con la voce calma e quasi solenne «Rachè, questo bambino come lo chiamiamo?». Rachele lo guarda e non capisce il senso di quella domanda. Non ci sono dubbi. «E come lo chiamiamo, Turì. Nino se è maschio, Palma se è femmina. Come mio padre e mia madre.» La tradizione vuole che i primi due figli prendano il nome dei nonni paterni e infatti la primogenita si chiama Rosa e il secondo genito Natale. Gli altri figli che verranno prenderanno i nomi dai nonni materni.
Salvatore è sul punto di piangere. Rivive gli eventi che lo portarono a quel giuramento. Ricorda un detto pozzallese “nunn’apprummintiri voti e Santi e mancu cuddureddi e picciriddi”. Non fare promesse ai Santi e nemmeno prometti di dare dolci ai bambini se poi non vuoi o non puoi mantenere la promessa. Inizia a raccontare alla moglie per filo e per segno l’accaduto. Non trascura nessun particolare anzi, forse “rinforza” la narrazione per convincere Rachele che ora non poteva tirarsi indietro. Se nasce un maschio si chiamerà Calogero.
Domenica delle Palme, Settimana Santa.
Si preparano “i ‘mpanati ri Pasqua[31]”. Pasqua, “luni ri Pasqua”[32]. Niente non ci sono segni che facciano pensare all’inizio del travaglio. Salvatore teme di essere chiamato da qualche armatore. Anche se sono passati pochi giorni dallo sbarco, se qualcuno ti offre un lavoro, non puoi rifiutare. Tutte le mattine il vicino di casa gli porta il latte fresco delle sue capre perché è ottimo per le gestanti. Salvatore riesce a procurare anche uova fresche e pesce fresco di paranza. Dà anche una mano a qualche pescatore per guadagnare qualcosa. Un marinaio a terra non ha stipendio. Vive di quello che ha accumulato durante l’imbarco precedente ma se resta troppo tempo a terra deve darsi da fare per vivere. Fortunatamente Rachele è una donna che sa gestire i guadagni del marito. Qualcuno potrebbe dire che è avara ma non è così. Conosce i sacrifici del marito e non è disposta a sperperare inutilmente risparmi che sono costati privazioni e sofferenze. Passa tutta la settimana di Pasqua. Forse ha sbagliato a fare i conti. Il bambino doveva nascere prima di Pasqua. Domenica in Albis. I galli cominciano a cantare. S’intravedono le prime luci dell’alba e Rachele sente le prime contrazioni. «Salvatore chiama la levatrice, ci siamo». È il 12 aprile 1920, lunedì, in via XXIV Maggio, 19, Rachele Falco partorisce Calogero Scala di Salvatore.
Estate 1920 Torre del Greco
Il caldo torrido di questo mese di luglio sconsiglia attività di lavoro all’aperto ma bisogna completare l’allestimento di questa nave. Due piccoli armatori di Torre del Greco hanno costituito una società, Albanese & Romano, ed hanno incaricato il Cantiere Raiola di costruire un brigantino-goletta, brigoletta, per i loro traffici nel Mediterraneo. Giuseppe Raiola è un maestro d’ascia che si è formato nei migliori cantieri torresi e, stanco di lavorare per conto di altri, ha deciso di mettersi in proprio. Quando riceve l’incarico da Albanese & Romano aveva già costruito qualche brigoletta con ottimi risultati e fu anche per questo motivo che i due armatori lo scelsero.
Sono passati quasi venti mesi dall’impostazione della chiglia. La nave è completata per la parte dello scafo, alberatura e manovre. Mancano solo poche cose delle dotazioni obbligatorie previste e di quelle di rispetto e la brigoletta sarà pronta per il varo e l’ispezione per l’assegnazione della classe.
Prima dell’inizio dei lavori, il cantiere, ha fatto regolare domanda di classificazione al R.N.I. e, in base al suo Regolamento approvato dal Ministero della Marina il 24 aprile 1914, un perito costruttore navale, il sig., Michele Della Rocca, è stato incaricato di seguire tutte le fasi di costruzione mettendo in atto la cosiddetta, “Sorveglianza Speciale”. Ogni singola prescrizione costruttiva imposta dal R.N.I. è stata rispettata. Raiola ha usato componenti di ottima qualità. Legno di quercia perfettamente stagionato per lo scafo, inchiodatura del fasciame con chiodi in “metallo giallo”[33], alberi e alberetti, pennoni e boma in pregiato legno di pino, manovre e vele dei migliori maestri cordai e velai torresi. A dire il vero, il maestro d’ascia, per l’alberatura, avrebbe preferito usare legno di abete ma il costo sarebbe cresciuto notevolmente e il pino è un ottimo compromesso. Questa brigoletta sarà un biglietto da visita per il giovane cantiere. Deve essere perfetta. Finalmente è arrivata anche la campana. Ha un peso di 22 chilogrammi, superiore ai venti previsti dal Regolamento per le navi di stazza superiore alle 50 tonnellate. Ultimi controlli allo scafo. Ultime verifiche fatte dai calafati[34] al fasciame. Sullo specchio di poppa, su fondo nero, in un bianco abbagliante, un operaio sta scrivendo il nome della brigoletta: Marietta Romano.
Brigantino goletta “Marietta Romano”, portata lorda 131 tonnellate, lunghezza fuori tutto 23, 20 m, larghezza a metà nave 7 m, altezza dalla chiglia fino al ponte di bordo libero 3,3 m, pronta a scivolare in mare. È arrivato il momento. Il parroco della Basilica di Santa Croce è già stato avvisato. Gli armatori sono arrivati e ispezionano il cantiere. Girano intorno alla nave, ne osservano l’elegante scafo e concordano nell’idea di aver fatto un’ottima scelta nell’essersi affidati al giovane Raiola. Il maestro d’ascia li segue con uno dei suoi operai. Vuole essere certo che quando la nave verrà liberata dalle cime che la tengono ferma, scivolerà in sicurezza fino all’acqua. Un fischio richiama tutti all’inizio dello scivolo. È arrivato il prete. Il sole comincia a picchiare duro. I quattro allungano la falcata e si mettono accanto al sacerdote. Un operaio è pronto a liberare la brigoletta e tutti gli altri sono attorno allo scivolo, a distanza di sicurezza ma pronti ad intervenire in caso di imprevisti.
«In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Deus, qui humanam mundique fortunam tuens, omnes adversitates, omnemque procellam ab hac lace custodi, incolumes vectores et nautas conserva, ut feliciter navigare et ad optatum portum pervenire possint. (Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Dio, che vegli sulle sorti dell’uomo e dell’universo, tieni lontano da questo brigantino ogni avversità e ogni tempesta, preserva incolumi passeggeri e marinai, perché possano navigare felicemente e giungere al porto desiderato)». «In nome di Dio, taglia» urla il costruttore Raiola. Lentamente la nave comincia a scivolare sul piano inclinato aumentando piano piano la velocità fino a quando la pala del timone prima e il calcagnolo a seguire toccano l’acqua calma e la poppa si fa strada come una lama affilata nella carne di un tonno appena pescato.
13 ottobre 1920 Napoli – Molo Beverello
«Ohoh, voga. Ohoh, voga» urla il marinaio che tiene stretta la barra del timone di una piccola lancia ai due mozzi ai remi. I due ragazzi immergono le pale perfettamente coordinati e nonostante la forza che mettono nel portarli in avanti, la lancia si sposta di quasi un metro per volta. Troppo poco ma un motivo c’è: dalla poppa della lancia parte una gomena[35] che termina la sua corsa su una bitta[36] posizionata sulla prora di una bella e nuovissima brigoletta. Non c’è vento quel giorno a Napoli e per arrivare fino all’ormeggio il comandante Luigi Romano è costretto a ricorrere alla forza delle braccia dei suoi uomini. Noleggiare un rimorchiatore è troppo costoso per una barca che deve ancora cominciare a “lavorare”. Ha quasi rischiato di dover rimorchiare a remi la brigoletta da Torre del Greco fino a Napoli proprio per la debolezza del vento. Per stringerlo meglio ha dovuto fare un bordeggio lungo e per fare poco più di cinque miglia[37] ha impiegato quasi quattro ore. Oggi la “Marietta Romano” dovrà essere ispezionata dall’ing. Nicola Serra Caracciolo del R.N.I. per l’assegnazione definitiva della classe e l’appuntamento non può essere rinviato. Lentamente la brigoletta si avvicina al molo trainata dalla lancia. Il marinaio al timone lascia per un attimo la barra, si china e prende la cima guida del cavo di ormeggio della nave e la passa agli ormeggiatori sulla banchina. Uno di questi la mette sulla bitta e da bordo si comincia ad azionare l’argano per tesare il cavo e avvicinare la nave al molo. A poppa, intanto, un’altra cima viene lanciata a terra e anche questa serve a richiamare il cavo di poppa che vincolerà definitivamente il bastimento alla banchina. Terminata la manovra, gli uomini sulla lancia, la ormeggiano sulla stessa bitta del cavo di prua del bastimento, salgono sul molo e si preparano a ricevere il piccolo scalandrone. L’ingegnere Serra Caracciolo, accompagnato dal sig. Della Rocca, è già arrivato. Aspetta che la passerella sia assicurata e sale a bordo. Il comandante Romano incarica il nostromo di assicurare la nave e va incontro ai due emissari del Registro Navale. Conosce benissimo il sig. Della Rocca perché ha seguito tutte le fasi di costruzione della nave ma non l’ingegnere che gli sembra burbero e tutto preso di sé. Ma che importa. La nave è perfetta. Ha tutte le carte in regola per meritarsi la 1a Classe.
«Buongiorno. Benvenuti a bordo» dice ai due stendendo la mano. «Buongiorno, comandante» risponde il costruttore navale mentre l’ingegnere fa un cenno di saluto con la testa. «Seguitemi. Posso offrirvi un caffè? Il mozzo lo ha appena preparato.» «No, grazie» replica l’ingegnere «cominciamo subito l’ispezione. Ho altre due navi da visitare e un mucchio di cartacce in ufficio da controllare. La vostra nave è nuova, il sig. Della Rocca mi ha già fatto vedere i documenti e mi ha assicurato che è stato fatto un buon lavoro. Mi faccia vedere la sentina, la stiva e le dotazioni obbligatorie, comandante». «Come preferisce, ingegnere, ma non sa quello che si perde. Il caffè di Torre del Greco, senza offesa, non è quello di Napoli…» aggiunge il comandante Romano sorridendo come a dire “sto scherzando” e facendo l’occhiolino al sig. Della Rocca. Ispezione effettuata. Tutto in ordine. L’ingegnere sembra soddisfatto e quando vede la campana tirata a lucido non riesce a fare a meno di darle un colpetto rimanendo piacevolmente colpito dal suono pieno e cristallino. Ottimo bronzo. La Fonderia Pontificia Marinelli di Agnone, anche nella realizzazione di piccole campane, non si smentisce. Prima Classe assegnata. 100 A 1.1. Il massimo. Nave abilitata alla navigazione nel Mediterraneo. Da questo momento la “Marietta Romano” inizia la sua attività. I contratti non mancano. Napoli, La Spezia, Genova, Savona, Palermo, Porto Empedocle, Siracusa, Catania, Malta…Pozzallo.
Pozzallo 1936 Raganzino
Un ragazzo pozzallese, negli anni ’30, figlio di un marinaio che futuro lavorativo può avere? Calogero ha da poco compiuto sedici anni. Fino ad oggi ha aiutato la famiglia con piccoli lavoretti, facendo il garzone nelle piccole botteghe cercando d’imparare un mestiere ma, alla fine, aveva sempre “i piedi a mollo”. La spiaggia di Raganzino con le barche di pescatori era un richiamo irresistibile. Da una parte “u pantanu ri Raianzinu”[38], a due passi da casa, luogo di giochi di tutti i ragazzi del quartiere e dall’altra i pescatori intenti a curare le loro barche, a riparare le reti durante le giornate di cattivo tempo, le paranze che rientrano alla “valata” dopo una battuta di pesca che rappresentano un richiamo irresistibile. Gli amici di gioco lo chiamano “Calù” da “Caluzzu” traduzione in dialetto pozzallese di Calogero. Un nome poco diffuso. Nel quartiere ci sono almeno altre due persone che lo portano e sono anche abbastanza conosciute perché l’anno scorso un brigantino pozzallese, durante una terribile tempesta, perse due uomini dell’equipaggio: il nostromo Giovanni Colombo e il marinaio Raffaele Di Raimondo Metallo in prossimità dell’isola di Ponza.
Al comando di quel brigantino, il “Luigi Barrera”, era Calogero Castaldo e a bordo c’era anche il marinaio Calogero Susino. Quella vicenda aveva impressionato non poco gli abitanti del quartiere anche perché il nostromo era il marito di Mariannina Emilio che dieci anni prima era stata ammazzata assieme ad una delle figlie nel corso di un furto. Giovanni Colombo si era poi risposato e la cosa non fu ben vista dai familiari dell’Emilio e dall’intero quartiere. La sua morte in mare fu vista come una sorta di punizione per la mancanza di “rispetto” nei confronti della prima moglie, della figlia morta e di quella sopravvissuta al massacro.
Nessuno sa perché questi due portano il nome del monaco Calogero mentre di “Caluzzu” Scala tutti sanno il motivo di quella scelta. Qualcuno, addirittura, l’ha paragonata alla vicenda che determinò la scelta del nome del grande San Giovanni Battista. I marinai di Raganzino hanno scelto il Battista come loro protettore e già da qualche anno lo festeggiano in modo solenne. Secondo il racconto evangelico il padre del santo, Zaccaria, sacerdote ebraico, durante lo svolgimento del suo ministero ricevette l’apparizione di un angelo che gli preannunciò la nascita di un figlio che avrebbe dovuto chiamare “Giovanni”. Zaccaria ammutolì e riprese a parlare alla nascita del figlio quando tutti gli chiedevano perché volesse chiamarlo “Giovanni” visto che nessuno della sua famiglia portava questo nome. Ecco, lo stesso accadde quando Salvatore Scala decise che il figlio si sarebbe chiamato “Calogero”. Un ex-voto, un “per grazia ricevuta”, in pratica.
Dunque, “Caluzzu” ha l’età per lavorare veramente. La sua famiglia è cresciuta. Altri fratelli e sorelle si sono aggiunti e, come in quasi tutte le famiglie pozzallesi, i soldi non bastano mai. Una mattina Salvatore a casa dopo un lungo imbarco chiama il ragazzo. «Calù, ta nesciri a libretta i mari. Parrai co cumannanti ra Capitaneria. Priparamu i catti e puoi viriemu unni puoi ‘mbarcari»[39]. In realtà Pozzallo non ha una Capitaneria ma un piccolo ufficio dipendente dalla Capitaneria di Porto di Siracusa. “Caluzzu” può chiedere l’iscrizione nella 1a categoria della gente di mare. Il Codice Marittimo del 1865 e il Regolamento per la Marina Mercantile permettono l’iscrizione di minorenni a condizione che il genitore dia l’autorizzazione. L’iscrizione iniziale, dopo che sia stata accertata l’idoneità fisica, è con la qualifica di mozzo e poi, con l’esperienza si diventa giovanotto, marinaio e nostromo per i più capaci. Calogero si sottopone alle visite mediche, fa la prova di nuoto e di voga e alla fine ottiene il suo libretto di navigazione. Mozzo Calogero Scala di Salvatore matricola n. 12443 di Siracusa.
“Turiddu” Scala inizia contattare tutti i padroni marittimi della città molti dei quali sono anche armatori. Non sarà facile riuscire a trovare un imbarco per il ragazzo. Qualche anno fa aveva dovuto faticare non poco per trovare un imbarco all’altro figlio, Natale, di due anni più grande e poi doveva continuare a lavorare anche lui e tutti gli obiettavano che non potevano imbarcare un’intera famiglia e che a Pozzallo c’erano tanti marinai bisognosi di lavoro tanto quanto loro. Natale stava facendosi strada. Tutti i comandanti con i quali aveva navigato lo consideravano un ottimo marinaio che apprendeva in fretta e che non si tirava mai indietro quando c’era bisogno di una mano in più. Forse fu per la nomea del fratello e non meno per quella del padre che il giovane Calogero trovò il suo primo imbarco su un bastimento pozzallese.
Navigare su un bastimento non è come aiutare di pescatori di una paranza o “ri na varca a sadda”[40]. La sera prima di imbarcare non riesce a prendere sonno. Ripete tutte le raccomandazioni che il padre gli ha fatto. Prima fra tutte quella di obbedire sempre e senza discutere gli ordini dei superiori e del comandante in particolare. Dal comandante dipende la vita di tutti. Comanda perché ha le conoscenze e l’esperienza per farlo. Un marinaio che non ha rispetto e non obbedisce al suo comandante non è un buon marinaio perché agirà sempre per conto suo e in mare bisogna che tutti agiscano come una cosa sola pur facendo attività diverse. Salvatore lo sveglia all’alba. Il bastimento partirà in mattinata e prima si presenta, migliore sarà l’impressione che darà di sé. «Forza, Calù, pripariti[41]». Un balzo ed è giù dal letto, si veste al buio, cercando di non far rumore per non svegliare la sorella Rosa. Va “no scupiettu[42]” dove c’è una piccola bacinella. Versa un po’ d’acqua dal secchio che il padre aveva riempito attingendola dalla cisterna, con il pezzo di sapone che era lì accanto “supra a pila[43]” insapona mani e faccia lentamente pensando a come potrà lavarsi in mare. Con l’acqua salata, sicuramente. Ci sarà il sapone? Dove farà i bisogni? Ci sarà anche a bordo il “vaso di Caltagirone, u catusu[44]”? È assorto in questi pensieri quando Salvatore lo chiama. «Arà Calù. Muoviti.[45]» Rachele ha il cuore a pezzi. Sa quanto sia pericolosa la vita che il figlio sta per intraprendere. L’angoscia del distacco si fa sempre più forte. La vive ogni volta che Salvatore parte, la rivive quando parte Natale e ora che anche Calogero deve andar via si sente ancora più schiacciata da un’oppressione che non sa decifrare. Non può fare a meno di pensare che quel figlio è una promessa mantenuta e questo la rassicura. San Calogero lo proteggerà perché gli è stato promesso ma nemmeno questo pensiero la tranquillizza completamente.
Il mare è fonte di vita, produce benessere ma è anche ghermitore di vite, sa essere impietoso, terrificante. Riscalda un po’ di latte per i suoi uomini, lo mette in due “nappe[46]”, due pezzettini “ri zuccuru a cuocciu[47]”, un pezzo di pane fatto nel forno di casa e un po’ di caffè “ri uoriu[48]”. Questa è la colazione. Nessuno dei tre pronuncia parola. Calogero cerca di immaginare la nuova vita che lo attende. Salvatore, anche se non lo dà a vedere, è anche lui turbato. Ripensa a quel giorno di sedici anni fa quando in mezzo alla tempesta si affidò a San Calogero ed il pensiero che anche il ragazzo fra qualche giorno potrebbe trovarsi a dover affrontare situazioni simili lo preoccupa. Finisce presto quella “nappa” di latte. È ora di partire. Rachele, senza aprire bocca, con gli occhi pieni di lacrime, stringe forte il figlio e con la stessa forza con la quale cinge le spalle di Calogero sente come se una mano le sprema il cuore. Salvatore la sera prima aveva consigliato Calogero su cosa portare con sé e l’aveva aiutato a sistemarle in modo ordinato dentro la sacca. Ad un marinaio servono poche cose. Cose indispensabili come il rasoio, il pettine, un pezzo di sapone, un cambio di biancheria, un cambio di vestiario da usare nel caso ci sia la possibilità di scendere a terra e poche altre cose. Poche cose, poco peso, piccolo ingombro. I due si avviano lungo la via Solferino e, mentre fa giorno, Salvatore continua a raccomandare il figlio. Percorrono la via fino alla Chiesa Nuova (Madonna del Rosario) e scendono fino alla piazza. La attraversano tutta, arrivano ai magazzini Pandolfi, costeggiano la Torre e si ritrovano nel piccolo pontile di pietra. Il sole è sorto da mezz’ora circa. È appena sopra la linea della costa della Marza ma in prossimità del pontile c’è già un gran via vai di gente. Pescatori, marinai, manovali, contadini, spedizionieri, “camalli[49]”, come li chiamano i genovesi. Il bastimento sul quale imbarcherà il giovane Calogero è ancorato a mezzo miglio circa. Una lancia è ormeggiata alla bitta di pietra alla testa del molo pronta a partire. «Buongiorno, Turì. A chiè chistu t’afigghiu? Caluzzu, Veru?[50]» gli grida un marinaio dalla lancia. Salvatore fa andare avanti il ragazzo mentre fa cenno con la mano quasi a dire «si iddu è[51]». Arrivati alla fine del molo, Salvatore, si rivolge al marinaio che l’aveva salutato «com’è Giovà ogghi partiti, veru?[52]» e al cenno di conferma prosegue «t’arraccumannu o picciriddu. Fai comu se fussi t’afigghiu[53]». «Stai tranquillo, il tempo è buono “o ‘mparu iu[54]” e prima che arriviamo a Malta vedrai che sarà più bravo di te». Salvatore prende la sacca e con un movimento deciso del braccio la lancia al marinaio poi si gira verso Calogero «Calù, m’arraccumannu, stai attentu e fai tutto quello che ti dicono. Non fare mai di testa tua». Lo abbraccia e si un pensiero gli si materializza in testa: non lo ha mai abbracciato. Che strana sensazione. Quante volte si è trovato lui a prendere quella lancia. Quante volte ha salutato i genitori, Natale e Rosa. Quante volte ha salutato Rachele, la sua amata moglie. Eppure, questa “spattenza”, questa separazione non è come le altre. Non riesce a capire la differenza, non riesce a identificarla ma sa che è diversa. È una sensazione diversa anche da quella provata quando, come ora, ha accompagnato Natale all’imbarco. Eppure, tutti e due sono figli in egual modo. Mah, forse perché Caluzzu è il più piccolo e nuovamente ritorna il ricordo di quella promessa fatta a San Calogero. Forse è per questo. Questo figlio rappresenta un miracolo. È il ricordo vivente di quel miracolo che quella notte nel Canale di Sicilia salvò lui e i suoi compagni da morte certa. Anche i suoi occhi s’inumidiscono. Distoglie gli occhi dal figlio che sembra aver intuito la commozione del padre e lo incita a salire a bordo della lancia. «“S’abbenerica” papà» e con un balzo centra perfettamente la piccola imbarcazione mentre un’onda la solleva avvicinandola al bordo del molo. Un salto da marinaio pensa Salvatore. Bravo Calù. «Avanti, Calù, vai a prua e fammi virri comu sai rimari[55]» gli dice il marinaio mentre Salvatore libera la cima d’ormeggio. Il marinaio, aiutandosi con un mezzo marinaio[56], allontana la barca dal molo e incita il ragazzo «Prua al mare. Voga, oh. Voga, oh». Calogero, con le spalle alla prua immerge il remo di dritta nell’acqua e, facendo forza sullo scalmo, lo porta indietro mentre fa la stessa cosa con il remo di sinistra ma portandolo, invece, in avanti. La lancia prontamente gira su sé stessa come fosse su un perno e appena la prua è rivolta verso il bastimento il ragazzo comincia a manovrare i due remi allo stesso modo. L’accelerazione impressa dalla forza di un ragazzo fa perdere per un attimo l’equilibrio al marinaio che non si aspettava una partenza così grintosa e girandosi verso il molo in rapido allontanamento, grida verso Salvatore che osservava la scena «Turì, a si viri ca è t’afigghiu…[57]» strappandogli un sorriso di compiacimento. Calogero sarà un buon marinaio.
Pozzallo 1932
Il padrone marittimo Giovanni Sigona vorrebbe acquistare un brigantino. Negli anni, navigando per conto di altri ha acquisito contatti e conoscenze che potrebbero permettergli di mettersi in proprio. Una brigoletta che spesso si trova nelle acque di Pozzallo ha attirato la sua attenzione. Da buon comandante intuisce quando ha davanti una buona barca e questa ha delle belle linee d’acqua. Sarà sicuramente molto maneggevole ed avrà un’ottima tenuta al mare. Casualmente incontra nell’ufficio locale marittimo il suo comandante, il padrone Luigi Romano. Giovanni Sigona doveva regolarizzare uno sbarco e Luigi Romano doveva svolgere delle pratiche amministrative e i due, che si conoscevano, nell’attesa del loro turno, iniziarono a parlare del più e del meno. In men che non si dica, i due, formalizzarono un contratto per l’acquisto da parte di Giovanni Sigona della “Marietta Romano” che, nel frattempo, era stata rilevata per intero da Pietro Romano e aveva cambiato il nome in “Giuseppe Romano”. Giusto il tempo di completare il viaggio e sarebbe stato formalizzato il cambio di proprietà. Tutti i 24 carati della brigoletta “Giuseppe Romano” furono acquistati da Giovanni Sigona fu Raffaele che, ancora una volta, le cambiò in “Giovanni Sigona. Il comando del bastimento rimase a Luigi Romano che, quindi adesso, lavorava alle dipendenze dell’armatore Giovanni Sigona.
Pozzallo 1936
Mentre Caluzzu Scala iniziava la sua carriera da marinaio, la brigoletta che era nata assieme a lui, che tante volte i suoi occhi avevano inconsapevolmente guardato, veniva acquistata da un altro Sigona, Gioacchino. Altro cambio di nome. Da “Giovanni Sigona” a “Martino Sigona” padre di Gioacchino che ne assunse anche il comando.
Da questo momento in poi tutto l’equipaggio diventa pozzallese. La brigoletta viene iscritta nel registro delle navi a vela di Siracusa e inizia una serie di traffici con tutti i porti del Mediterraneo. Nel mese di luglio, Gioacchino Sigona riesce a spuntare un buon prezzo da un cantiere di Siracusa per ripulire la carena della nave e per verificarne le condizioni. È un lavoro di routine e permette all’equipaggio di riposare un po’ anche se devono partecipare anche loro alle attività del cantiere. La nave viene tirata su per lo scivolo dello scalo, viene puntellata ed è pronta per la prima valutazione del lavoro da fare. Questa è un’operazione delicata perché il fasciame deve essere controllato tavola per tavola e al primo segno di danneggiamento bisogna schiodare la tavola e sostituirla e poi procedere con il calafataggio. Ad una prima ispezione sembra tutto in buone condizioni ma bisogna ripulirla di alghe, incrostazioni e denti di mare[58] per esserne certi. Caluzzu, intanto, alterna gli imbarchi a periodi, sempre brevi, di riposo a terra. Non resta mai fermo. Quando è a casa va a pescare o svolge piccoli lavoretti. Nel frattempo, sono arrivate altre sorelle e fratelli e le esigenze della famiglia crescono. Bisogna mettere da parte i soldi che servono per maritare le sorelle ma anche per pensare al proprio futuro. È ancora giovane ma comincia a guardarsi attorno. Raganzino è un quartiere relativamente giovane e di ragazze da marito ce ne sono a sufficienza. Tra un imbarco e l’altro arriva la promozione a giovanotto. Nella marineria pozzallese è riconosciuto come un bravo e capace marinaio e non fatica mai a trovare un imbarco.
Giugno 1937 Pozzallo
La “Martino Sigona” è ormeggiata nella rada di Pozzallo. Gioacchino Sigona la sera prima aveva concordato con il vetturino del paese di farsi accompagnare alla stazione ferroviaria per prendere il primo treno del mattino per Siracusa. Alle quattro il padrone è già pronto. Guarda fuori. È ancora buio ma fa già caldo. Esce sulla “ciappetta” di piazza Mercato dove abita, accende uno dei sigari toscani che gli aveva regalato uno spedizioniere di La Spezia e si avvia verso il molo in pietra sotto la torre. Non c’è un filo di vento e già immagina la fatica del viaggio in treno con questa afa. Vorrebbe fare solo il marinaio. Stare in mare, condurre le sue navi, domare le onde e invece si ritrova a doversi occupare di carte su carte, girare per uffici, discutere con i burocrati poi, da quando il governo è in mano ai fascisti, pare che la burocrazia sia ancora più insidiosa. Devi stare attento a mille dettagli perché ti controllano in ogni passo che fai. Mentre è assorto in questi pensieri sente gli zoccoli del cavallo e il cigolio delle balestre della carrozza e, quasi contemporaneamente, vede il fanale. Si mette sotto un lampione per farsi vedere e alza la mano. Il cocchiere lo vede, si avvicina «sabbenerica cumannà[59]». «Buongiorno, buongiorno» risponde Gioacchino «sbrighiamoci. Il treno deve essere già partito da Sampieri». Apre il piccolo sportello della carrozza, si siede e il cocchiere da un colpetto con le redini al cavallo. Gioacchino chiude gli occhi e quasi gli sembra di essere a bordo per il dondolio della carrozza. Passato il bivio della Senia ha l’impressione di sentire il fischio del treno. «Non farmi perdere il treno, u sintisti friscari?[60]» rivolgendosi al cocchiere. «No, cumannà non era il treno. Veniva dalla Giuffrida[61]. Avranno fatto sfiatare qualche caldaia». Si sente già l’odore delle carrube. Ancora una volta pensa di essere in mare. Quanti viaggi ha fatto per Genova o Savona con il bastimento carico di carrube. Chiuse nelle stive sprigionano il loro odore caratteristico che si diffonde ovunque. Non c’è angolo della nave, sopra o sottocoperta, che non sia pervaso da quell’odore intenso. Una volta andò a riva[62] dell’albero di maestra e pure lassù, con il vento, si sentiva. Arrivano alla stazione, scende, paga il cocchiere e si avvia alla biglietteria. Il treno non è ancora arrivato. Fa il biglietto. Quel giorno è l’unico passeggero. Il macchinista del treno avvisa con un fischio che si sta avvicinando al passaggio a livello “ra via Scicli”, a “calamuzzana”[63], e il capostazione aziona lo scambio. Il cielo a oriente inizia a mostrare una debole luminosità. “Qualche minuto ancora e, se fossi in mare, il crepuscolo permetterebbe di fare il punto nave” pensa Gioacchino. Si sente il treno sbuffare e improvvisamente, mentre il rumore sembrava ancora lontano, spunta il fanale della locomotiva e il pennacchio di vapore che biancheggia sullo sfondo nero del cielo a occidente. Un altro fischio, lo stridore dei freni e il locomotore con i tre vagoni che lo seguono si ferma al binario uno della piccola stazione.
Giugno 1937 Stazione di Siracusa
Due ore è durato questo viaggio ma sono sembrate un’eternità. L’altro ieri ha mandato un telegramma all’Agenzia Boccadifuoco[64] e gli hanno fissato un appuntamento per oggi. Dalla stazione deve andare ad Ortigia. Fa ancora più caldo. Decide, quindi, di prendere un’altra carrozza. «A piazza Mazzini» dice al cocchiere. Lo spedizioniere Domenico Boccadifuoco è anche l’agente del Registro Navale e bisogna organizzare la Visita Ordinaria allo scafo e alla carena previste dal Regolamento del Registro per il mantenimento della classe. La periodicità delle visite è biennale e l’ultima si è svolta a Crotone nel ’35. Gioacchino e Domenico Boccadifuoco si conoscono da tempo. Lo spedizioniere ha spesso gestito trasporti per conto di Gioacchino Sigona e fra i due c’è un rapporto di fiducia reciproca. Si accordano per fare la visita alla fine del mese, per lo scafo prima e, a seguire, per la carena. Una stretta di mano e l’accordo è fatto. Domenico lo invita a pranzo in una piccola trattoria vicino al suo ufficio. Parlano della situazione economica del paese, della sua possibile evoluzione prestando attenzione a non sbilanciarsi in critiche al regime. Terminato il pranzo, Gioacchino ferma una carrozza che transitava per la piazza e si fa portare alla stazione. Si torna a casa.
L’indomani avvisa l’equipaggio di organizzare la nave per il trasferimento a Siracusa. Provviste per un paio di giorni ma soprattutto grandi pulizie. Stive, sentine, alberi, vele, manovre, catene e ancore, lancia, dotazioni fisse e di rispetto ecc. ecc. Sotto la supervisione del fratello Giombattista, nostromo, le attività a bordo della “Martino Sigona” si svolgono celermente e in perfetto ordine.
Il tempo di navigazione per Siracusa è di quasi un giorno. Appena arrivati la nave va subito in cantiere, tirata in secco. Pronta per l’ispezione. Le operazioni richiedono diversi giorni. Termina il mese di giugno, inizia luglio e verso la metà del mese la brigoletta ritorna nel suo elemento naturale. Tutto perfetto. Carena integra e in perfette condizioni di impermeabilità. Scafo senza danni con la chiodatura senza alcun segno di usura. Classe confermata per altri due anni. Prossima visita programmata per novembre 1939.
Fine novembre 1938 Pozzallo
Dagli scogli della “Valata”, proprio sotto il faro, Gioacchino discute con il fratello sul prossimo viaggio che dovranno fare. Al pontile di tavole di quercia appoggiate sui pali di ferro è ormeggiata una brigoletta genovese. C’è un via vai di carretti e di uomini carichi di sacchi di iuta fra uno dei magazzini che si trovano proprio di fronte al pontile e la nave. Nell’aria l’inconfondibile odore di carrube. Alcuni produttori preferiscono spedirle al nord anziché conferirle alla Giuffrida perché anche se il rischio di perdere il carico è alto viene pagato di più. La caricazione richiederà ancora due giornate di lavoro e una volta ultimata la “Martino Sigona” prenderà il suo posto. Domenico Boccadifuoco gli ha procurato un contratto di trasporto per Savona di un carico di carrube e al ritorno dovrà caricare dei laterizi a La Spezia da consegnare ad un commerciante di Catania. L’equipaggio era quasi al completo. Mancava un giovanotto e ne serviva uno in gamba. Tutto il viaggio durerà almeno tre mesi e nei mesi invernali nel Tirreno e nel Mar Ligure è facile incontrare cattivo tempo e, quindi, ognuno deve saper fare il proprio lavoro e rispondere prontamente agli ordini. Giombattista aveva pensato di imbarcare il fratello più piccolo, Felice ma proprio qualche giorno prima aveva ricevuto un’offerta d’imbarco su una grande nave a vapore che da Genova andava negli Stati Uniti. Era un’occasione da non perdere e Gioacchino e Giombattista, anche se a malincuore, consigliarono il fratello di accettare. I due fratelli si avviano per tornare a casa e giunti davanti alla Società Marinara Giombattista si ferma e dice «Gioacchì, chiedo se sanno di qualcuno che ha bisogno di lavorare?» «Si, si, vai. Fammi sapere, ma mi raccomando, che sia un ragazzo capace» risponde Gioacchino mentre il fratello ha già messo un piede sul primo scalino. Giombattista conta sulla capacità che hanno i vecchi marinai di diffondere le notizie. Quella stanza sembrava un piccolo “cuttigghiu[65]” dove erano gli uomini e non le donne a raccontarsi tutto quello che succedeva nel piccolo paesino.
«Sabbenerica a tutti» saluta il giovane nostromo. L’aria è satura di fumo. Qualcuno fuma la pipa, qualcun altro ha un sigaro in bocca che aspira avidamente, qualcun altro ancora fuma sigarette “fatte da sé” con tabacco di pessima qualità. La porta chiusa non permette il ricircolo dell’aria e sono talmente presi da discussioni o dalla briscola che a stento si sono accorti della folata di aria fredda e pulita che è riuscita a farsi strada in mezzo a quella nebbia. Anche se non fossero stati impegnati nelle loro attività, probabilmente quei vecchi lupi di mare non si sarebbero ugualmente scomposti al saluto di Giombattista. Sanno tutti chi è quel ragazzo e molti di loro pensano che se non fosse per il fratello, a venticinque anni, non avrebbe mai potuto essere un nostromo. È ancora un ragazzo. Come fa ad avere l’esperienza necessaria per essere l’uomo più importante, su un bastimento, dopo il comandante? Lo guardano con superficialità e Giombattista lo sa. Li guarda anche lui con sufficienza e pensa tra sé “mmiriusi[66]”. Beh, non sbaglia. C’è molta invidia in quelli sguardi e questa contribuisce alla costruzione dell’atteggiamento scostante dei soci del sodalizio. Giombattista è il fratello di Gioacchino Sigona, un padrone marittimo che ha saputo costruirsi una piccola ma attiva flotta. Possiede tre brigolette. La “Ferdinando Sigona, la “Giuseppe Sigona” e la “Martino Sigona” per un totale di 396 tonnellate di stazza. Nel 1939 è sicuramente l’armatore più attivo della città ed è anche il più affidabile. I suoi equipaggi sono fra i più preparati e gli uomini sono stati scelti uno per uno. «Avremmo bisogno di un giovanotto per la “Martino Sigona”. Sapete se qualcuno è libero e vuole lavorare? Andiamo a Savona e poi passiamo a caricare a La Spezia per Catania». Uno di quelli che giocavano a carte, appoggiandosele al petto per non farle vedere, si alza «Giombattista, forse ci sarebbe un ragazzo che in questo momento è a casa. Ha tre anni di lavoro sulle spalle ma è molto bravo. Forse sulle vostre navi ha navigato qualcuno della sua famiglia. È Caluzzu Scala, u figghiu ri Turiddu Scala e u frati ri Natali[67]». «Grazie, si ho capito chi è. Avvisatelo e se è interessato “u sapiti unnè a ma casa”[68]. Dovremmo partire fra un paio di giorni e quindi ditegli di sbrigarsi. Buona giornata a tutti». Giombattista apre la porta, esce e si avvia per tornare a casa e parecchi indossano i loro cappotti e fanno lo stesso. Sono già le undici e mezza e un marinaio a mezzogiorno deve essere già seduto a tavola per il pranzo. L’uomo, che aveva suggerito il nome di Calogero, è un amico della famiglia e prima di andare a casa sua passa da quella di Salvatore Scala.
Caluzzu è contentissimo per quella notizia. Imbarcare su un bastimento dei Sigona è una certificazione di professionalità. Tutti sanno come siano attenti nella scelta dei loro equipaggi. Nel pomeriggio il ragazzo contatta Giombattista. Giovanotto Calogero Scala di Salvatore: Abile e arruolato. Torna a casa contento di essere stato assunto e comincia subito a preparare le sue cose. Anche il padre è contento per questo contratto. Calogero, con questo imbarco, non avrà più problemi di lavoro. Se dimostrerà di essere un bravo marinaio entrerà a far parte definitivamente degli equipaggi dei Sigona. Anche se l’armatore dovesse fallire o vendere tutto, gli basterà contattare i pozzallesi che sono a Genova e gli procureranno immediatamente un imbarco magari sulle navi a vapore. Come ad ogni imbarco Rachele, però, non è contentissima. Ogni volta è una sofferenza. Le si inumidiscono gli occhi, sente come delle fitte al cuore, mille pensieri attraversano la sua mente. Non riesce a pensare ad altro se non a quell’unico racconto di Salvatore in mezzo alla tempesta. Non sa esattamente cosa significhi trovarsi in mare con cattivo tempo ma sa che si rischia la vita. Che i suoi figli, suo marito, rischiano la vita. Questo stato di sofferenza dura tanto quanto l’imbarco e solo parzialmente è mitigato quando uno dei figli ritorna o ritorna Salvatore. Guarda le sue bambine e, alla fine si rassegna. I pozzallesi hanno il destino già scritto alla nascita. I maschi andranno per mare e le femmine aspetteranno il loro ritorno.
Giombattista non ha lasciato la nave per tutta la durata delle operazioni di carico. La sua distribuzione nella stiva è un’operazione delicata perché ne va della stabilità della nave. Si accerta che i sacchi siano disposti come i mattoni di un muro, accavallati l’uno sull’altro, con la lunghezza disposta per traverso in modo da offrire una maggiore superficie di attrito durante le rollate. Il fratello, Gioacchino, invece, si è preoccupato di controllare le vele, tutte le manovre, la lancia di salvataggio e le provviste. Il viaggio fino a Savona sarà abbastanza lungo e se dovessero incontrare cattivo tempo dovranno, probabilmente, cercare rifugio da qualche parte. Meglio portare qualcosa in più. Un’occhiata al barometro e alle carte di bordo. Otto anni fa si trovava a Genova con la Ferdinando Sigona” quando la “Luisa Madre”, con al comando l’amico Giovanni Salesi si sfracellò contro il molo Principe Umberto per un guasto al timone. Ogni volta, prima di ogni viaggio, controlla personalmente tutte le corde della timoneria. Ne verifica ogni singolo componente accertandosi che la pala risponda perfettamente ai comandi della ruota. Brigoletta “Martino Sigona”, caricazione completata. Pronti a partire. C’è un bel Maestrale[69]. La nave è ormeggiata con il lato di sinistra al molo di ferro e legno della “Valata”. Per partire non ci sarà bisogno di mettere a mare la lancia. Basta solo mollare i cavi di prua e poi quelli di poppa e la nave si allontanerà dalla testata del molo sotto la spinta del vento sulle vele. Sono sette gli uomini dell’equipaggio. Il comandante, Gioacchino Sigona, il fratello Giombattista, nostromo, il marinaio Giovanni Ruggeri e il figlio Ruggiero mozzo, il marinaio Salvatore Modica, il giovanotto Calogero Scala e il mozzo Barrera Antonino.
«Molla a prua, su il fiocco, braccia trinchetta e maestra sottovento[70]» ordina il comandante e Giombattista ripete l’ordine. Tutti gli uomini corrono ad eseguire. Le vele devono essere messe al vento quasi in contemporanea. In questo modo il fiocco tenderà a mettere la prua al mare mentre la trinchetta e la maestra, equilibrandosi fra loro, faranno traslare la nave lateralmente facendola allontanare dal molo e quando sarà a sufficiente distanza si potranno bracciare le altre vele e mettere le mura a dritta e acquistare velocità. «Timone a centro» ordina ancora Gioacchino. Manovra perfetta. La brigoletta, lentamente si allontana dal molo e mentre avanza accosta a dritta sotto l’azione del vento sul fiocco. Una ad una tutte le vele vengono messe al vento. Si va di gran lasco[71]. La “Martino Sigona” naviga col vento in poppa e a bordo tutti sperano in una navigazione tranquilla fino a destinazione. Isola dei Porri, Isola delle Correnti, Capo Murro di Porco…Stretto di Messina…Savona. Solo qualche piovasco, qualche rollata al traverso di Ponza e di Montecristo e poi lisci fino all’arrivo. Il carico è arrivato in perfette condizioni. A nave vuota, prima di ripartire, si controlla la stiva, le sentine. Tutto asciutto. A dire il vero, a prua il pagliolato[72] sembra umido ma forse è acqua piovana che si è infiltrata tra le tavole della coperta. La sentina non sembra particolarmente bagnata. Gioacchino chiede al fratello di controllare fino a La Spezia. Si riparte da Savona, si costeggia la Liguria.
Porto di La Spezia. Il carico è già pronto in banchina. Il tempo di ormeggiare e i laterizi cominciano ad essere portati a bordo. Giombattista ordina di iniziare a caricare a poppa. Quell’umidità a prua è sempre presente, forse è leggermente aumentata. Giombattista, d’accordo con il fratello, vuole fare appoppare la nave. In questo modo la prua emerge e si può controllare a vista che non ci siano danni al fasciame. Con un marinaio mettono in acqua la lancia e girano attorno alla nave. Tutto normale. Non ci sono segni di fessure nel fasciame e tutti i chiodi sono al loro posto. Il “metallo giallo” usato per la chiodatura del fasciame non presenta segni di corrosione. Mah! Deve per forza essere acqua che si infiltra dalla coperta. Nel viaggio per Spezia hanno preso qualche ondata a prua. Sarà stato quello. Giombattista comunica il risultato dell’ispezione al fratello che, soddisfatto, gli chiede di tenere, comunque, pronta una pompa a prua. Meglio averla già pronta nel caso servisse. Tutto l’equipaggio è impegnato nel controllo della caricazione. I laterizi sono un carico delicato sia per la sua fragilità ma anche perché facilmente scivola se non ben rizzato[73]. Proprio per diminuire il rischio di scorrimento la stiva è stata suddivisa in tre parti nel senso della chiglia usando delle tavole in modo da realizzare dei compartimenti separati e gli spazi vuoti a murata vengono subito riempiti con zeppe di legno. I laterizi vengono messi a bordo per mezzo di una gru di terra, inseriti in una rete di canapa e con questa calati nella stiva dove gli uomini provvedono a liberarli dall’imbracatura e a stivarli.
Mercoledì 4 gennaio 1939 Porto di La Spezia
Telemetaereo, il servizio meteorologico della Regia Aeronautica ha emesso il solito bollettino giornaliero. Un’area ciclonica molto ampia staziona sull’Europa Centrale e una sua diramazione, tecnicamente una saccatura, seguendo i Balcani, ha generato un minimo secondario sul medio Adriatico. La Spezia è protetta dagli Appennini e, quindi, la bassa pressione non crea preoccupazioni per chi, come i marinai della “Martino Sigona”, si prepara a partire. La caricazione è quasi ultimata e nella tarda mattinata di domani si parte. È sabato. A mezzogiorno la stiva è piena. Ultimi controlli del rizzaggio. Calogero e il mozzo Ruggiero chiudono il boccaporto prima di andare a mangiare qualcosa. Sistemano la tela olona[74] che impedirà infiltrazioni di acqua nella stiva e durante il lavoro chiacchierano fra loro. Ruggiero ha due anni in meno di Calogero e fantasticano su quello che faranno al ritorno a casa. Sono in mare da tre mesi e sono stanchi. Questo imbarco non è particolarmente pesante ma quasi mai hanno avuto la possibilità di scendere a terra. «Dai Ruggiè, sbrighiamoci. Abbiamo mezz’ora appena prima che ricomincino a caricare». Sulla banchina ci sono ancora circa 3/4 tonnellate di laterizi da caricare. La stiva è piena e, quindi, verranno rizzati in coperta. Calogero non è molto contento di questa soluzione. In realtà nemmeno il comandante ed il nostromo sono entusiasti ma quella è la polizza di carico e non si può fare diversamente. L’equipaggio dovrà stare un po’ più attento del solito quando si sposta in coperta e per il resto si spera di non incontrare cattivo tempo.
Giovedì 5 gennaio 1939 – Porto di La Spezia
Tutto il carico è a bordo. Dopo l’Ave Maria arriva il pilota. Vento dai quadranti occidentali[75]. Il pilota ha consigliato, anzi, quasi imposto, il rimorchio e Gioacchino è ben contento di acconsentire. Arriva il piccolo rimorchiatore a vapore. Si molla l’ormeggio a prua, si dà volta al cavo[76] di rimorchio e, appena questo comincia ad andare in tensione, si molla l’ormeggio di poppa. La “Martino Sigona” si stacca dal molo e si avvia. Sfilano davanti alla base navale della Regia Marina lasciandola sulla dritta, lo stesso per la Torre Scola. Al traverso dell’Isola del Tino il pilota dà le ultime indicazioni a Gioacchino e raggiunge la pilotina che lo aspetta per riportarlo in porto. «Molla a prua» ordina il comandante e Ruggiero rilascia il cavo di traino del rimorchiatore che subito accosta a sinistra per tornare anche lui in porto. «Mure a dritta, Giombattista, metti su tutte le vele che puoi» e mentre il nostromo distribuisce gli uomini scende sottocoperta per controllare la carta e il barometro. Gioacchino vuole arrivare prima possibile all’Arcipelago Toscano. Il mare, ora che sono usciti dal riparo del Golfo di La Spezia, fa rollare troppo la nave e anche il beccheggio è aumentato. Torna in coperta. Giombattista, poggia, vai al vento. Serra[77] il controfiocco, contro velaccino, velaccino e la controranda. Stiamo rollando troppo». Poi si gira verso il timoniere «venti a dritta[78], Giovà». Docilmente la brigoletta comincia a virare a dritta e inizia a prendere il mare non più di traverso ma verso prua, verso il mascone. Il rollio si attenua e senza il controfiocco diminuisce anche il beccheggio. Bisognerà fare dei bordeggi più lunghi ma si sta più tranquilli pensa fra sé Gioacchino. Apre la porta della tuga a poppa e ritorna al tavolo di carteggio, un altro sguardo alla carta e poi si siede alla scrivania della sua cuccetta, prende il Giornale di Navigazione Libro Secondo e annota: “giorno di giovedì 5 gennaio essendo pronti di partenza con carico a bordo come da Giornale di Boccaporto con 7 persone di equipaggio e con tutto l’occorrente per la nostra navigazione si mollano gli ormeggi e si parte dal Porto di La Spezia a rimorchio del vaporetto. Tosto fuori si fa tutte le vele navigando con mure di dritta.”
Venerdì 6 gennaio 1939 – Tirreno Settentrionale
La navigazione procede regolare. Turni di guardia tranquilli ma la velocità risente degli effetti del mare. Mare Mosso. Sporadici piovaschi. Vento da NE, Grecale.
Sabato 7 gennaio 1939 – Tirreno settentrionale
Per evitare di rollare troppo si cercano andature che evitano di esporre i fianchi della nave al mare e questo non permette di avanzare come si vorrebbe. Se non ci fosse quel carico in coperta si potrebbe correre di più. Il cielo è sereno e solo in serata qualche nuvola si addensa a settentrione. Turni di guardia regolari. Visibilità buona. Nessuna nave incontrata.
Domenica 8 gennaio 1939 – Tirreno settentrionale
Il mare continua a rimanere grosso. Il barometro non segna un particolare abbassamento della pressione. Il vento è cambiato. Ora soffia da Scirocco. La temperatura è in rialzo e anche l’umidità. Andando verso Sud lo scirocco non è certo il vento ideale.
Lunedì 9 gennaio 1939 – Tirreno settentrionale
Al crepuscolo serale si avvista a circa due miglia a sinistra della prua il fanale nord delle secche della Meloria. Pochi minuti e si vedono le luci di Livorno. «Cambiamo bordo. Puntiamo sulla Gorgona e da lì andiamo per l’Elba, Giombattista».
Martedì 10 marzo 1939 – Tirreno settentrionale
Il vento ha cambiato ancora direzione. Ora soffia da occidente. Raggiunta la Gorgogna, cambio di mura e si punta sull’Elba. Il mare comincia a diventare fastidioso. Calogero è di vedetta. «Calù» lo chiama il nostromo «vai a prua e prova la pompa che abbiamo sistemato prima di partire. Se s’innesca avvisami subito». Calogero obbedisce immediatamente. Aspetta che la barca s’inclini a sinistra e correndo, costeggiando il carico a dritta, in un balzo è a prua. Gioacchino ha comandato di non passare dallo stesso lato d’inclinazione del bastimento per andare e tornare da prua. Il carico è ben drizzato ma non si sa mai. I laterizi hanno bordi taglienti e con i movimenti della nave, piccoli spostamenti sono come un coltello che tenta di tagliare una corda. Purtroppo, non avevano catene per bloccarli e, in ogni caso, se le avessero avute, avrebbero rappresentato un peso in più con riduzione della capacità di carico. La pompa a mano pesca direttamente nella sentina con un’apertura opportunamente sigillata. Calogero comincia ad azionarla ma questa aspira a vuoto. Continua per qualche minuto. Sempre a vuoto. Non c’è acqua nella sentina di prua. Si alza e fa segno al nostromo che tutto è in ordine. Poi aspetta il momento opportuno per tornare indietro aspettando la sbandata della nave per passare dal lato opposto.
Mercoledì 11 gennaio 1939 – Tirreno settentrionale
Il brigantino va troppo piano. Il vento lo fa scarrocciare troppo e per tornare in rotta dopo oggi bordeggio si perde tanto tempo. Nonostante il controllo continuo del barometro, Gioacchino Sigona, non può accorgersi che una depressione sull’Inghilterra ha generato una saccatura sulla Francia che si estende fino al Mediterraneo Occidentale. La “Martino Sigona” non risente di questa bassa pressione se non per il cambiamento del vento. Ora il vento soffia di nuovo da Scirocco. Gioacchino si mette con la faccia al vento e distende le braccia lateralmente. I mozzi lo guardano con curiosità interrompendo il lavoro di controllo del carico. Ruggiero si avvicina a Calogero e senza farsi vedere gli chiede sottovoce «ma che fa?». «Cerca la bassa pressione» gli risponde il giovanotto. Ha visto tante volte il ripetersi di questo rito. Lui non lo sa ma è una legge fisica che regola questo modo empirico di trovare, anche se in modo approssimativo, la posizione di un’area ciclonica. In pratica, guardando il vento, a sinistra, in avanti, si trova l’alta pressione e a destra, indietro, la bassa. Sono fra la Gorgogna e l’Elba vanno quasi controvento e da questo “calcolo” la depressione si trova sotto il Golfo del Leone e l’anticiclone nel Mare Egeo. Gioacchino non sbaglia. Aria calda risale da Sud e si scontra con quella fredda da settentrione di provenienza russa. Non dovrebbero avere problemi anche se la brigoletta balla. Tengono su la velatura sufficiente per avanzare ma senza sforzare l’alberatura.
Giovedì 12 gennaio 1939 – Tirreno settentrionale
La “Martino Sigona” si trova circa a metà strada fra le due isole, la Gorgogna e l’Elba, più o meno al traverso di Cecina. «Cambiamo bordo. Prua su Capraia» ordina Gioacchino. Il mare fa sbandare troppo la brigoletta. Dopo la manovra, Giombattista manda nuovamente Calogero a prua per riprovare la pompa. Il ragazzo prontamente si avvia. Appena dopo l’albero di trinchetto comincia a ricevere i primi spruzzi delle onde che s’infrangono sull’affilata prua della nave. Anche il beccheggio è più accentuato. Il giovanotto di coperta pensa che avrebbe dovuto mettersi una cerata addosso. Tornerà indietro completamente bagnato. Pazienza. Ancora una volta la pompa pesca a vuoto. Caluzzu torna a poppa. «Nostrò, nenti, nunni tira acqua. A sintina è asciutta». «Miegghiu, miegghiu, Calù. Vatti a canciari[79]» avvedendosi dei vestiti inzuppati del ragazzo «e stai sottocoperta per scaldarti un po’».
Venerdì 13 gennaio 1939 – Tirreno Centro Settentrionale
Da Capraia si punta ora sull’Elba. Piovaschi e groppi di vento[80]. Questo viaggio sembra infinito. Se avessero trainato la nave a remi avrebbero fatto più strada. «Giombattista, appena arriviamo all’Elba continuiamo sotto costa, se il vento ci aiuta». «Gioacchì, ni lassamu Palmaiola a sinistra?» «Si, si e calamu accussi fino o Gigliu[81]». Il tempo non è cattivo ma ogni tanto arrivano delle onde anomale che fanno traballare la nave. Sotto costa saranno più regolari. La navigazione continua così fino al 20 marzo.
Sabato 20 gennaio 1939 – Tirreno centrale
In mattinata si è al traverso delle Formiche di Grosseto. Rari piovaschi riducono la visibilità. Durante tutto il viaggio, stranamente, non si è incontrato nessun vascello. Anche in vicinanza della costa, eccettuata qualche barca di pescatori, nessuna nave. Al solito il nostromo manda il ragazzo a prua per il controllo della sentina. Calogero aspetta la rollata e corre dalla parte opposta per raggiungere la prua. Quando ha quasi superato l’estremità prodiera del boccaporto quando nota un piccolo sfilacciamento di un cavo di rizzaggio dei laterizi. Guarda meglio e si accorge che è talmente piccolo che pensa fosse così già alla partenza. Arriva a prua, comincia ad azionare la pompa e dopo diverse pompate, quando stava per fermarsi, fuoriesce un piccolo sbuffo d’acqua. Istintivamente, ma anche per esperienza, mette le dita davanti al beccuccio, le bagna e le porta alla bocca. È acqua salata. È acqua di mare. Continua a pompare e l’acqua esce ad intermittenza. Poca acqua. Calogero ha 19 anni, ha pochi anni di mare sulle spalle ma ha avuto ottimi istruttori. Non ha studiato idraulica, non ha studiato fisica, non conosce i principi di stabilità di una nave carica però capisce subito che la pompa aspira acqua quando la nave sbanda a sinistra proprio dove pesca la pompa. Deve essere poca e, quindi, durante la rollata si sposta a dritta e la pompa non pesca più. Torna a poppa. Giombattista pare intuire qualcosa e gli si fa incontro. Questa volta il ragazzo si è fermato più del solito. «Calù, che c’è? Acqua?» Raggiunge il ragazzo. «Nostrò, viniti, viniti[82]» non aggiunge altro e torna verso prua seguito dal nostromo. Gioacchino che scrutava il mare a dritta si accorge della scena cercando di capire cosa stia succedendo. È lui ad aver chiesto al fratello di controllare la sentina con quella pompa che aveva fatto mettere a prora e il fatto che è andato incontro al ragazzo e poi, insieme, sono andati a prua può significare solo una cosa: acqua in sentina o, peggio, nella stiva. Eppure, la prua sembra comportarsi normalmente. Non sembra appesantita. Quando s’immerge nel cavo dell’onda riemerge facilmente senza rallentamenti. Gioacchino si trova davanti alla tuga[83] di poppa, si porta dietro dove Giovanni Ruggeri è al timone. «Giovà, como o sienti u timuni? A prua è ddura?» «No, cumannà, picchì, chi succeri?[84]» «Niente, niente. Se noti qualcosa di strano chiamami subito». «Certo, Gioacchì» rispose il marinaio abbandonando la formalità del grado. Con Gioacchino Sigona si conoscono da bambini e sono stati compagni di giochi visto che sono uno dell’91 e l’altro dell’86.
Sul ponte ci sono solo loro quattro. Gli altri sono sottocoperta a riposare dopo il turno di guardia. A prua, intanto, Calogero ha di nuovo raggiunto la pompa ed ha cominciato ad azionarla e nello stesso istante in cui arriva Giombattista, uno sputo d’acqua esce dal beccuccio. Calogero, solleva lo sguardo, guarda fisso negli occhi il nostromo e, prima che questi gli faccia domande dice «è salata». Giombattista si meraviglia per la prontezza di Calogero e, però, forse sperando che sia sbagliato, che gli sembra salata per qualche spruzzo proveniente da prua che gli ha bagnato la mano, anche lui stende la mano e raccoglie quella poca acqua che la pompa nel frattempo ha sputato nuovamente. La porta alla bocca e sporge la lingua. Non gli sembra salata. Intinge meglio la lingua e, ora, la sapidità del sale è intesa. È acqua di mare! «Camina, Calù. Amuninni a puppa[85]». Nella foga della situazione, Calogero dimentica di riferire il particolare del cavo di rizzaggio ma fin dall’inizio non gli era sembrata una cosa importante.
I due arrivano a poppa dove Gioacchino li attende con ansia e un po’ di preoccupazione. Il viaggio è ancora lungo. Non sono neanche a metà strada. Già pensa alla possibilità di fermarsi a Civitavecchia per esaminare meglio la carena. Giombattista interrompe i suoi pensieri. «Gioacchì, c’è acqua a prua. È poca. Forse si è infiltrata fra lo sbocco di cubia e l’occhio[86]». «Controlla ad ogni cambio di guardia. Se aumenta vuol dire che è una cosa seria. Intanto cerchiamo di non far salire onde in coperta. Il boccaporto? Hai controllato la tenuta della tela olona?» «No, Gioacchì. Controlliamo subito ma mi pare sia tutto a posto».
Sabato 21 gennaio 1939 Tirreno Centrale
Notte tranquilla. Gioacchino sale in coperta ad ogni turno di guardia. Ogni volta al marinaio al timone che smonta chiede se la nave risponde bene al timone e ogni volta la risposta è la stessa. «Si, cumannà. Ma picchì chi succeri?» e lui di rimando «Nenti, nenti». In realtà tutti sanno dell’acqua a prua ma nessuno pensa che sia una cosa grave. La sentina di una nave di legno ha proprio la funzione di raccogliere acqua che può infiltrarsi e da lì viene pompata all’esterno. La “Martino Sigona” ha diciannove anni, non è nuovissima ed è normale che un po’ di acqua entri da piccolissime fessure che si formano sulla carena e sul ponte e che le pompe possono tranquillamente drenare.
Al crepuscolo mattutino si è al traverso di Torre Capo d’Uomo con a sinistra l’Isola del Giglio. Gioacchino vuole girare attorno alla penisola dell’Argentario e puntare su Civitavecchia dove conosce un cantiere navale che, nel caso ci fosse la necessità, può aiutarlo. Scende sottocoperta e Giombattista, che nel frattempo ha preparato il caffè, gliene porge una tazza. «Gioacchì, che facciamo? Andiamo a Civitavecchia? Ci fermiamo un paio di giorni, controlliamo la nave e ripartiamo, no?» «Si, andiamo a Civitavecchia. Ti ricordi di quel cantiere di due anni fa? Se bisogna fare qualcosa saremo nel posto giusto». Mentre discutono una sbandata improvvisa quasi li fa cadere a terra. I due fratelli saltano sulla scaletta e in un istante sono sul ponte. Mentre Gioacchino guarda a prua, Giombattista chiede al timoniere «che succede, Turì?». Al timone c’è adesso Salvatore Modica. «Nenti, Giombattista, na’ raffica ri vientu». Il nostromo chiama Calogero che è di guardia assieme a Salvatore Modica. «Calù, andiamo a prua e diamo una controllata alle vele e agli alberi». Da poppa sembra sia tutto in ordine. Mentre i due si avviano, Gioacchino, intento a scrutare il mare e il cielo dice al fratello «facciamo presto, Giombattista, fra qualche miglio cambiamo mura e servono tutti gli uomini in coperta» e anche lui segue il fratello ed il ragazzo. Delle 230 tonnellate di portata netta, la brigoletta ne ha a bordo 205 e di queste, 200 sono nella stiva e le restanti 5 sono in coperta. I tre uomini guardano con attenzione le vele, i pennoni e gli alberetti dell’albero di maestra, controllano tutte le manovre e continuano verso prora raggiungendo l’albero di trinchetto. Tutto in ordine. Arrivano a prua. Il mare al mascone di dritta solleva spruzzi continui. «Calù, a pompa» ordina il nostromo mentre lui e il fratello controllano la velatura sul bompresso. Vento fresco. La pompa non innesca subito. Quando aspira l’acqua, però, Calogero lo capisce subito. Sente il pistone più duro. Adesso dal beccuccio della pompa non esce più acqua a spruzzi ma quasi in modo continuo. Questa non è più acqua che s’infiltra dalla coperta o dal passaggio della catena dell’ancora. «Calù, continua a pompare. Ti mando qualcuno per darti il cambio» dice il nostromo al ragazzo. Gioacchino guarda la pompa, il fratello e si avvia per tornare a poppa. «Giombattista chiama gli uomini. Cambiamo bordo. Forse è meglio dirigerci su Porto d’Ercole». All’andata erano presi dal controllo delle vele e al ritorno preoccupati per l’acqua. Nessuno dei due nota che quel piccolo sfilacciamento del cavo di rizzaggio del carico in coperta si è ingrandito. Certo il mare non può dirsi calmo. Il vento soffia da scirocco ed è sostenuto. La nave risponde bene al timone. Gioacchino si mette accanto al timoniere mentre il fratello si sporge all’interno della tuga e grida «tutti in coperta, manovra». Appena Giovanni, il figlio Ruggero e Antonino mettono piede sul ponte si recano al loro posto di manovra. Salvatore lascia il timone al comandante e si prepara a manovrare il boma con la randa. «A posto per girare» comanda Gioacchino. Calogero lascia la pompa e si prepara a mollare le scotte dei fiocchi. Giombattista fa segno al fratello che la gente è al suo posto. «Orza! Randa in mezzo» e poco dopo «in bando i fiocchi!» Boma in direzione della chiglia, a centro, il bastimento va all’orza, le vele cominciano a sbattere e subito dopo cominciano a prendere il vento dall’altro lato. «Smura» ordina Gioacchino. Il bastimento lentamente progredisce e si mette nel letto del vento. «Molla boline! Scambia a poppa! Scambia a prora!» e mentre la nave riprende velocità «borda fiocco! Ala boline!». Bordo cambiato. Giombattista manda Ruggero a prora per dare il cambio a Calogero e poi organizza i turni alla pompa. I due fratelli Sigona hanno notato che la nave ha risposto lentamente ai comandi ma forse è una suggestione o forse è dovuto al mare che l’ha ostacolata. Comincia a farsi buio. Al cambio di guardia di mezzanotte altro cambio di bordo. Gioacchino si consulta con il fratello e i due marinai e la decisione è presa: si va a Porto Ercole. Dopo questo cambio di bordo ordina agli uomini di riposare. Sul ponte restano lui, al timone, e Giovanni Ruggeri. Ognuno prende posto nella sua amaca. Il dondolio della nave e la stanchezza fanno rapidamente addormentare i cinque marinai. Nessuno ha idea di quanta acqua si sia fatta strada all’interno della nave ma non sembra sia tanta perché le reazioni al mare sono normali.
Domenica 22 gennaio 1939 – Tirreno centrale – Traverso di Punta di Torre Ciana – Argentario
All’una di notte il mare è molto mosso. Gioacchino ha chiamato due uomini e ordina di serrare alcune vele perché anche il vento è aumentato. Ora soffia da occidente e la nave prende il vento sulla dritta. Qualche onda sale in coperta dal mascone di dritta. Gioacchino ha l’impressione che la prua risalga le onde con fatica. Ha ordinato di mettere in funzione una seconda pompa. Adesso sono due i mozzi a prua impegnati. È buio pesto. Fa freddo e l’aria è piena di spruzzi ma i ragazzi mettono tutto l’impegno possibile nell’azionare le due pompe. Mancano tre ore al prossimo cambio di bordo, quello che li porterà a Porto Ercole. Se Dio vuole domattina saranno con i piedi sulla terraferma. Sono tutti tranquilli. Non c’è motivo di temere. Sono vicini alla costa, la nave non sembra in difficoltà e anche se il mare è grosso hanno visto di peggio. Piove.
Quando a La Spezia Giombattista ha ispezionato la prua della brigoletta non poteva accorgersi di una fissurazione sul fasciame del mascone di sinistra perché sotto la linea di galleggiamento ma anche dal lato della banchina e, quindi, in ombra. Durante le operazioni di carico, la maggiore immersione ha portato ad un aumento della pressione dell’acqua e ad un conseguente aumento dell’infiltrazione. Solo un rivolo, comunque, nulla di più.
Sono le due. L’acqua ha superato il livello delle sentine ed ha raggiunto il carico. Ha inzuppato le tavole longitudinali che separano i laterizi nella stiva. Il legno bagnato ha le fibre ammorbidite e questo ha prodotto un giogo fra tavole e laterizi che ad ogni rollata aumenta. Gioacchino chiama i due ragazzi che sono a poppa. «Ruggero, Antonino andate ad asciugarvi e svegliate Calogero. Domattina saremo in porto e basta un solo uomo alla pompa». Scende anche lui sottocoperta e lascia sul ponte il marinaio al timone. I due mozzi svegliano Calogero, tolgono i vestiti bagnati e, infreddoliti, cercano di asciugarsi. Gioacchino è già in branda. Il tempo di stendersi e appoggiare la testa sul cuscino e il sonno e la stanchezza prendono il sopravvento. Il fratello dorme nella sua amaca così come l’altro marinaio. Ad essere svegli sono i due mozzi e Calogero che sta indossando gli stivali.
È un attimo. Sentono la prua sollevarsi velocemente e nello stesso tempo la nave sbanda a sinistra ed è a quel punto che odono un forte rumore provenire da prora, come se avessero urtato qualcosa. In coperta, intanto, quel cavo sfilacciato, si era indebolito sempre più e quella sbandata improvvisa lo ha spezzato. Gli altri cavi ora sono sotto sforzo. La nave s’inclina dal lato opposto e ritorna a sbandare a sinistra. Non hanno urtato uno scoglio e nemmeno un relitto portato dal mare grosso. No. I laterizi a estrema prua, nella stiva, si sono spostati con tanta violenza da spezzare le tavole del fasciame proprio nel punto della fissurazione. L’acqua, ora, si introduce violentemente all’interno della nave. Adesso la brigoletta è appesantita sia a prua che sul lato sinistro. L’inclinazione della nave per il bordo che sta percorrendo e l’aumento di peso comportano un maggiore grado di sbandamento. Tornando ad inclinarsi a sinistra il peso dei laterizi grava sulle corde restanti e supera il loro carico di rottura. Si spezzano una dopo l’altra con uno schiocco che il timoniere distingue nettamente nonostante il fischio del vento e il rumore prodotto dai marosi. Lo scivolamento è immediato. I laterizi sembrano una mandria di buoi che prende lentamente velocità e che travolge tutto quello che incontra. Sfondano la murata di sinistra ma questo spostamento improvviso aggrava l’inclinazione con l’acqua che sale in coperta. L’improvviso spostamento di peso prodotto dal carico in coperta che scivola, l’acqua che si accumula sul lato sinistro, lato dello sbandamento, il peso dell’acqua che, per l’inclinazione e per la perdita della murata invade la coperta fa perdere improvvisamente la riserva di stabilità alla nave. Nessuno fa in tempo a rendersi conto di quanto accade. È tutto così veloce che i sette uomini dell’equipaggio della brigoletta “Martino Sigona” si ritrovano sommersi dall’acqua. La brigoletta si è capovolta ed il capovolgimento è aumentato dalle onde che continuano a spingere da dritta. La lancia è liberata dai suoi vincoli dal carico che, scivolando, ha tranciato corde, cime, gomene. L’acqua entra violentemente dalla tuga di poppa impedendo agli uomini sottocoperta di uscire. Chi dormiva è annegato quasi subito. I tre ragazzi hanno provato disperatamente a guadagnare l’uscita ma l’acqua li ha ricacciati indietro e nell’oscurità hanno perso l’orientamento. Calogero, poi, aveva appena finito di indossare gli stivali e i vestiti pesanti lo hanno impedito nei movimenti. L’unico a rendersi conto di quanto stava succedendo è Giovanni Ruggeri. Il marinaio ha un solo pensiero. Il figlio. Lascia il timone e cerca di scendere sottocoperta per salvare Ruggero. Riesce ad entrare ma solo perché l’acqua che si riversa dentro la nave lo sospinge. Anche lui resta intrappolato. Sette uomini e tutti e sette dentro una nave che affonda inesorabilmente. Sono marinai, non sono palombari. Sotto la superficie la nave si raddrizza. Si rimette in posizione diritta come se dovesse ancora navigare ma gli uomini che sono al suo interno non vivono più. Cosa resta in superficie della “Martino Sigona”? Solo qualche tavola della murata e la lancia vuota. Le vele sono vincolate agli alberi e, appesantite dall’acqua, la seguono nel suo viaggio verso il fondo disponendosi come in navigazione. Se qualcuno potesse vederla ora, la brigoletta, darebbe l’impressione di un veliero che naviga sott’acqua. È l’alba del 23 gennaioo 1939. La “Martino Sigona” non è arrivata a Porto Ercole dove non è attesa. Non arriverà nemmeno a Catania dove, invece, è attesa per la fine del mese.
Lunedì 23 gennaio 1939 Spiaggia Tombolo di Feniglia – Porto d’Ercole – Orbetello
Nessuno nota la piccola lancia che si avvicina alla riva perché nessuno è in mare con quelle condizioni meteorologiche. È sospinta dalle onde. Manca qualche ora al tramonto. Un pescatore è in cerca di corallo strappato dalla forza del mare o pezzi di ambra. Ha gli occhi intenti a “rovistare” fra le alghe spiaggiate e pezzi di legno quando sente un rumore sordo davanti a lui. Alza lo sguardo e a un centinaio di metri vede una lancia arenata con il fianco sinistro sulla battigia della spiaggia deserta. Le onde le s’infrangono sull’altro fianco e l’acqua, risalendo lungo il fasciame, riesce a riversarvisi dentro. Non è una barca da pesca e poi con quella “buriana” nessuno va per mare. Ha sufficiente esperienza per capire che è la lancia di un bastimento. Che ci fa la lancia di un bastimento su quella spiaggia? Immagina subito la risposta. Il mare l’avrà strappata dal ponte di una nave di passaggio. Ma no, non è possibile. Con il mare grosso tutto quello che è in coperta è saldamente assicurato. Un naufragio. Sarà quel che resta di un naufragio. Dei poveri marinai avranno provato a salvarsi su quel guscio di legno e, forse, c’è qualcuno dentro stremato dalla fatica. Accenna a una piccola corsa. «Ohhh, ohhh» chiama attendendo una risposta che non arriva. Nessuno risponde. Raggiunge la lancia. Nessuna anima all’interno. Sembra una lancia fantasma. Ha uno scalmo divelto e le tavole del fondo galleggiano urtandosi l’una con l’altra. Non ha remi e non ha nemmeno le dotazioni obbligatorie previste per queste imbarcazioni che hanno anche la funzione di mezzi di salvataggio. Sembra abbandonata da chissà quanto tempo. Rapidamente e confuso, il pescatore si porta a prua. Se è la lancia di una nave dovrà riportarne il nome. Infatti. Pare sia stata scritto pochi minuti fa. La scritta, luccicante perché bagnata, riflette la debole luce del sole che rapidamente si avvia al tramonto. Eh, sì, qualcosa c’è scritto ma bisogna saper leggere. Il povero pescatore si guarda attorno, guarda avanti lungo la spiaggia che si estende per altri cinque chilometri ma riesce a vedere nulla. A questo punto torna indietro. Bisogna avvertire le autorità. Torna in paese e va subito dalla piccola caserma dei Regi Carabinieri. Bussa e al piantone che gli apre racconta del ritrovamento. Nessuno ha notizie di un naufragio. Il brigadiere al comando fa chiamare un altro carabiniere dal piantone e, assieme al marinaio, si avviano per cercare di capirne di più. Se si tratta della lancia di un bastimento naufragato bisogna provare a cercare i possibili superstiti. Forse il mare ha portato l’imbarcazione in quel punto ma più avanti potrebbe esserci qualcuno che ha bisogno di aiuto. In un attimo nel piccolo borgo si è sparsa la voce di un naufragio. Man mano che la notizia passa di bocca in bocca si aggiungono sempre più particolari fino al punto che la lancia è diventata un grande bastimento arenato sulla spiaggia e pieno di ogni ben di Dio. I tre sono diventati cinque e poi otto e poi quindici e i due carabinieri, se da un lato sono contenti perché avranno un aiuto nelle ricerche, dall’altro si preoccupano per la possibile difficoltà a trattenere tutte quelle persone nel caso in cui dovessero trovare qualcosa in più di una semplice lancia. È buio. Il gruppo avanza alla luce delle torce a batteria in mano ai due militari e finalmente arrivano nel punto in cui la barca è immobilizzata dalla sabbia. L’acqua che ad ogni onda entra nella piccola imbarcazione l’ha appesantita e la risacca le scava attorno facendola insabbiare sempre di più. Il brigadiere va subito a prora mentre con la luce della torcia scandaglia l’interno dell’imbarcazione e subito dietro il tagliamare legge: “Martino Sigona”. «Appuntato, vada avanti per un paio di chilometri. Cerchi tracce di naufraghi. Io guardo qui attorno. Se non trova nulla torni in caserma». «Comandi» urla l’appuntato mentre cerca di battere i tacchi ostacolato dalla sabbia.
Nessun bastimento. Nessuna nave da depredare. Chissà da dove arriva quella lancia e se effettivamente appartiene ad un veliero naufragato e poi non ci sono naufraghi, nè vivi né morti. Se la barca è arrivata fino a lì, perché non ci sono anche i suoi passeggeri? Il brigadiere torna in caserma e chiede al pescatore di ripassare l’indomani mattina per verbalizzare quello che è successo. Dopo circa quindici minuti rientra anche l’appuntato con le scarpe inzuppate d’acqua di mare perché durante la ricerca un’onda più vispa delle altre non gli ha dato il tempo di allontanarsi dalla battigia bagnandolo fino ai polpacci. «Non c’è nessuno, brigadiere e non ci sono tracce. Se c’è stato un naufragio non si è salvato nessuno o fra qualche giorno il mare restituirà quanto ha preso e ce li troveremo, gonfi, sulla spiaggia». Il brigadiere non gradisce quella descrizione. Ha già visto in quali condizioni viene ridotto il corpo di un uomo annegato dopo qualche giorno di permanenza in acqua. «Vada, appuntato, vada a dormire che domani le toccherà camminare un bel po’».
martedì 24 gennaio 1939 Porto d’Ercole
Di buon mattino il brigadiere si reca all’Ufficio Locale della Capitaneria di Porto e chiede del collega raccontandogli del ritrovamento. I due decidono di avvisare anche la milizia fascista e di organizzare una battuta di ricerca lungo i sei chilometri di spiaggia. Il secondo capo di Marina chiama la Capitaneria riportando l’accaduto al suo superiore. In ogni Regia Capitaneria hanno una copia del Registro Italiano Navale con l’elenco di tutte le navi nazionali, con i nomi dei rispettivi armatori, comandanti e porto di registrazione. Pochi minuti sono sufficienti. Eccola! Trovata!
Un dispaccio viene inviato a tutte le Capitanerie dalla Liguria fino alla Sicilia. Richiesta di informazioni sulla brigoletta “Martino Sigona” registrata al porto di Siracusa, di proprietà di Gioacchino Sigona e dallo stesso comandata. Si chiede di comunicare da quale porto sia partita, la sua destinazione e l’eventuale arrivo, se c’è stato. Risponde La Spezia: Spett. Capitaneria di Livorno. Si comunica che il brigantino-goletta denominata “Martino Sigona” è partito dal porto di La Spezia e diretto al porto di Catania in data 5 gennaio u.s. con un carico di 205 tonnellate di laterizi.
Cinque gennaio? La lancia è stata ritrovata il 23. Avrebbe già dovuto essere arrivata a destinazione. Livorno chiama Catania chiedendo informazioni. No, la brigoletta è attesa ma non è ancora arrivata.
Sono passati altri due giorni e non ci sono notizie. Le navi che sono passate in quella zona non riportano avvistamenti di relitti né avvistamenti di cadaveri. Sulle spiagge non ci sono altri rinvenimenti. Si aspetta fino alla fine di marzo continuando a chiedere informazioni. Nessuna traccia del bastimento.
Fine gennaio 1939 Pozzallo
Due Regi Carabinieri hanno un triste compito stamattina. Un dispaccio è arrivato in caserma con sette nominativi. Rachele ha appena aperto la porta. Guarda il cielo. Solo piccioni e gazze che volteggiano e mentre guarda assorta gli uccelli che a bassa quota sfrecciano fra i tetti, vede due carabinieri che scendono le scale di via Solferino. Un pensiero sinistro attraversa la sua mente. Perché ha collegato la vista di quei carabinieri con Calogero? Chissà dove si trova adesso. Non rientra in casa. Continua a seguire con lo sguardo quelle due figure nere con la bandoliera bianca che si avvicinano. Dove vanno? Che ci fanno due carabinieri da quelle parti? Rachela si rabbuia. Mille pensieri le vengono in mente e tutti sono cattivi. Da quando a pochi metri da casa sua ammazzarono la povera Mariannina e la figlioletta, la vista dei carabinieri la preoccupa, la intristisce, le mette ansia. Sono come uccellacci che portano cattive notizie. Si avvicinano. Guardano i numeri civici. Chi cercano? Sembra stiano marciando, i due. Ad ogni passo, per il modo di battere i piedi, sollevano una nuvoletta di polvere. Ma guardano lei? Ma no, no, non hanno motivo di guardarla. Uno dei due ha in mano una busta. Sono a pochi metri e Rachele è quasi pietrificata. Non riesce a muoversi. Le si è asciugata la bocca. Il carabiniere con la busta in mano le rivolge la parola. «Abita qui Calogero Scala?» Rachele lo guarda e non riesce a parlare. «Signora, ha sentito? Il marinaio Calogero Scala abita qui?» Al sentire la parola “marinaio”, Rachele, porta le mani alla testa e grida come se la stessero pugnalando. Qualcuno dei vicini ha visto la scena e subito di precipita e lo stesso fanno le figlie di Rachele. In un attimo attorno ai due carabinieri e alla donna si forma un capannello e ognuno chiede alle altre «chi succiriu, chi c’è». Il carabiniere consegna un foglio di carta a Rachele che continua a gridare consolata dalle figlie e dai vicini. Nessuno sa cosa sia successo e nessuno sa leggere quel foglio di carta. Ma non è necessario saper leggere, tutti intuiscono. Un carabiniere che cerca un marinaio imbarcato può significare solo una cosa: quel marinaio è morto. Qualcuno si fa coraggio e chiede ai carabinieri cosa c’è scritto su quel foglio e questi riferisce quel poco che sa. Il bastimento su cui lavora quel marinaio è sicuramente affondato e non ci sono superstiti né tracce dei loro corpi! In quel momento, la vicina di casa, che ha sentito quelle urla e sente il brusio delle persone per strada, apre la finestra e si affaccia per capire quello che è successo. Francesca Gerratana guardando alla disperazione di Rachele, a quella delle figlie che cercano di sorreggere la madre e che, anche loro, piangono disperate capisce subito. A quella vista un altro urlo si leva alto verso il cielo quasi fosse un’imprecazione verso Dio. I due carabinieri guardano in alto a quella finestra e non capiscono la disperazione dell’altra donna ma una delle vicine sa. «Marescià, sa maritu e sa figghiu sunu mbarcati no stissu bastimientu[87].» Accanto alla casa di Calogero è la casa di Ruggero e di suo padre Giovanni. Francesca ha perso il figlio diciassettenne e il marito. I due carabinieri realizzano che l’altra donna è la destinataria di un altro biglietto ma lei abita in via del Pozzo, parallela di via Solferino
Un attimo e quella limpida e tiepida giornata di primavera si è trasformata in un giorno di dolore, di sofferenza e di pianto inconsolabile. Potrà mai esserci consolazione? Potrà mai esserci pace in quei cuori di mamma che mai più rivedranno i loro figli? La Madonna ha sofferto vedendo il figlio morire sulla croce ma ha potuto abbracciarlo e dopo la sua resurrezione lo ha rivisto. Queste due mamme, invece, non potranno mai più riabbracciare i loro figli. «U figghiu miu, u figghiu miu, unnè u figghiu miu. Figghiu miuuu, unni siii[88]».
Quella mattina la città tutta piomba nel silenzio, nel lutto. Una città che di lutti come questo ne ha vissuti tanti ma che non riesce a rassegnarsi alla morte che rapisce le vite e anche i corpi. Da via Solferino, da via del Pozzo, da via Garibaldi, da piazza Mercato, da via Stovigliari e da via Aristodemo lamenti strazianti tagliano il silenzio del lutto.
Rachele viene portata in casa. Non capisce più nulla. È come se avessero spento la fiamma di un lume e la stanza piomba nel buio. Non sente le voci delle persone che le stanno accanto. Nemmeno quelle delle figlie, che pure piangono anche loro, ma che vedono la loro mamma come fosse morta assieme al figlio. La siedono, cercano di farle bere un po’ di acqua, le accarezzano la testa, l’abbracciano, la tengono stretta, le asciugano le lacrime. Tutto in quella casa si è fermato. Tutto si è fermato nelle case visitate dalla morte. Rachele si rinchiude per tanto tempo in una stanza, al buio, nel pianto continuo, mangia pochissimo e solo per l’insistenza dei figli. Rachele ha altri figli, altri maschi e altre femmine ma mai dimenticherà il suo Caluzzu. Lutto, “luttu strittu[89]” per lei e per tutti i figli. Le figlie con abiti neri, calze nere, “vistina niura[90]”, fazzoletto nero, compresa l’ultima della famiglia, Giovanna, che ha solo nove anni. I maschi con la fascia nera al braccio e il bottone nero sulla camicia o sulla giacca. Due pensieri tormentano Rachele. Il primo è l’immaginare il figlio sul fondo del mare, con il corpo che si disfa, che viene mangiato dai pesci e con le ossa separate le une dalle altre e portate via dalle correnti. Il secondo è la mancata protezione su quel ragazzo e sugli altri marinai di San Calogero. Caluzzu era stato affidato ad un santo che non lo ha protetto. Era “una grazia ricevuta” vivente ma questa “consacrazione” non è servita a salvarlo.
Coincidenze? Chi può dirlo. La brigoletta è stata varata nel 1920, Calogero è nato nel 1920 e Gioacchino si è sposato nel 1920 ma quello che fa più pensare è che sembra quasi che Calogero fosse, in qualche modo, predestinato a prendere il posto del padre; quasi come se il mare abbia preso quanto non era riuscito ad avere venti anni prima. L’invocazione di un marinaio aveva impedito al demone infernale di prendersi quelle anime? Ora, il vigliacco approfitta della distrazione di questi marinai per raccogliere il suo bottino. Cerca la sua vendetta. Il mare non è così forte da mettere in pericolo la brigoletta; la terraferma è vicina; la falla che si è aperta non deve essere molto grave perché la nave risponde bene alle manovre. Nessuno pensa a pregare. Nessuno invoca Dio o i Santi. Nessuno si sente in pericolo e il vigliacco ne approfitta. Se la vita è una lotta fra il bene e il male perché quegli uomini ne sono le vittime inconsapevoli e innocenti? Quante domande alle quali nessuno può dare risposta. Rachele, però, non vuole perdere altri figli, non vuole perdere il marito come è successo a Francesca sua vicina di casa. Fra le lacrime è ancora ad un santo che si rivolge, al “suo” San Calogero, al suo “Caluzzu” chiedendogli di proteggere i suoi fratelli, le sue sorelle e il padre. «“Figghiu miu iu nu’mma scuordu ri tia[91]” e il ricordo di te dovrà per sempre essere impresso in questa famiglia”». In un momento di tregua dall’angustia, chiama tutti i figli e in presenza di Salvatore detta la sua volontà. «Figghi miei, bo lassu pi pena ri scuminica: ognunu ri viautri, se aviti figghi masculi, uno a ciamari Calogero! Ogni famigghia n’aviri unu![92]»
E così fu.
©Antonio Monaca
[1] Nave. N.d.r.
[2] Brigantino. Nave a vela dotata di due alberi che portano vele quadre.
[3] Posizionare la nave in modo da prendere il mare con un angolo di 45° rispetto all’asse longitudinale. In questo modo la nave avrà un avanzamento quasi nullo si sposterà trasversalmente secondo la direzione del vento.
[4] Terzarolare significa ridurre la superficie delle vele esposte al vento.
[5] Randa di fortuna o piccola randa che sostituisce la randa ordinaria quando il vento è impetuoso.
[6] Ultima vela verso poppa sul bompresso usata con cattivo tempo (vedi figura).
[7] Inclinarsi su un lato.
[8] Manovre sono tutti i cavi usati per muovere le vele.
[9] Aiutaci e ti prometto che se ci salviamo il figlio che mi deve nascere lo chiamo come te, Calogero!
[10] Ragazzi in dialetto pozzallese
[11] Alberetto che parte dalla prua
[12] Parte trasversale degli alberi che sorreggono le vele
[13] La Torre della città costruita da don Bernardo Cabrera.
[14] Salvatore.
[15] Salvatore, piano, piano, siamo arrivati.
[16] Pontile.
[17] Hei, Salvatore, sei sbarcato adesso?
[18] Dei magazzini.
[19] Balata. Scalo usato per tirare in secca i bastimenti quando necessitavano di riparazioni e area di riferimento per le attività mercantili.
[20] Raganzino. Quartiere della città.
[21] Del cavaliere Papa. Gentiluomo modicano.
[22] Michele Barrera.
[23] Ciappetta. Banchina.
[24] S’abbenerica. Saluto ossequioso che significa “vi benedico”. Signor Michele, siamo appena arrivati.
[25] Vai, vai, Salvatore che tua moglie ti sta aspettando per partorire.
[26] L’area dove facevano il bagno le signore, lontane da sguardi indiscreti.
[27] Maria Vona.
[28] Vincenzo Susino.
[29] Entra, entra, Rachele. Il bambino? Quando dovrebbe nascere?
[30] Lo cala nella cisterna.
[31] Prodotto da forno formato da una sfoglia riempita con verdure o carne o pesce.
[32] Lunedì di Pasqua.
[33] Speciale lega di rame e zinco (ottone) con tracce di ferro particolarmente resistente alla corrosione. E’ conosciuto anche come metallo di Muntz.
[34] Operai che si occupano delle operazioni di calafataggio, una particolare tecnica che serve a rendere impermeabile una nave in legno.
[35] Tipo di cavo usato per rimorchio o ormeggio.
[36] Colonnetta di ferro o acciaio sulla quale vengono fissate le gomene per ormeggiare una nave.
[37] Unità di misura della distanza in mare. Corrisponde a 1,852 Km.
[38] Pantano di Raganzino.
[39] Calogero, devi chiedere il libretto di navigazione. Ho parlato con il comandante della Capitaneria di Porto. Prepariamo i documenti e poi cerchiamo un imbarco.
[40] Barca per la pesca delle sardine.
[41] Forza, Calogero, preparati.
[42] Pozzo luce senza copertura.
[43] Pila e un piccolo lavatoio in pietra usato per il bucato.
[44] Vaso alto in coccio usato per i bisogni fisiologici.
[45] Avanti, Calogero, muoviti.
[46] Tazzone.
[47] Zolletta di zucchero.
[48] Orzo.
[49] Scaricatori di porto.
[50] Buongiorno, Salvatore. Questo è tuo figlio? Calogero, vero?
[51] Si, è lui.
[52] Come va Giovanni, oggi partite vero?
[53] Ti raccomando il ragazzo. Fai come se fosse tuo figlio.
[54] Lo formo io.
[55] Forza, Calogero, vai a prua e fammi vedere come sai remare.
[56] Bastone con un gancio all’estremità usato per ripescare in mare cime o per allontanarsi da un ostacolo.
[57] Salvatore, si vede che è tuo figlio…
[58] Molluschi simili alle cozze che si attaccano tenacemente al fasciame delle navi.
[59] Comandante.
[60] …l’hai sentito fischiare?
[61] La Giuffrida era una distilleria che produceva alcol dalla macerazione delle carrube.
[62] Parte più alta dell’albero di una nave.
[63] Via Scicli che collegava Pozzallo a Scicli e Calamezzana contrada di Modica al confine di Pozzallo.
[64] Agenzia Marittima
[65] Cortile di un gruppo di case e centro di pettegolezzo.
[66] Invidiosi.
[67] Il figlio di Salvatore Scala e il fratello di Natale.
[68] Sapete dove abito.
[69] Vento proveniente da nord ovest.
[70]Fiocco: Vela triangolare issata tra l’albero più a prua e il bompresso (albero che prolunga la prua). Trinchettina: vela triangolare posta più indietro rispetto al fiocco. Maestra: la più grande vela quadra che si trova sull’albero di maestra.
[71] Con il vento in poppa.
[72] Il pavimento della stiva.
[73] Bloccato.
[74] Tela di cotone impermeabilizzata.
[75] I quadranti occidentali vanno da Sud a Ovest e a Nord.
[76] Mettere il cavo su una bitta.
[77] Raccogliere le vele sugli alberi o sui pennoni.
[78] Venti gradi di timone a destra.
[79] Nostromo, non aspira acqua. La sentina è asciutta. – Meglio, meglio, Calogero. Vai a cambiarti.
[80] Improvvisa raffica di vento.
[81] Gioacchino ci lasciamo Palmaiola a sinistra? Si e scendiamo così fino all’isola del Giglio.
[82] Nostromo, venite, venite.
[83] Piccola costruzione che protegge l’accesso alla zona sottocoperta.
[84] Giovanni, come senti il timone? La prua è dura? No, comandante, perché, che succede?
[85] Andiamo, Calogero. Andiamo a poppa.
[86] Passaggio per la catena dell’ancora che attraversa la coperta della nave a prora.
[87] Maresciallo, suo marito e suo figlio sono imbarcati sullo stesso bastimento.
[88] Mio figlio, mio figlio. Dov’è mio figlio? Figlio mio, dove sei?
[89] Lutto stretto.
[90] Veste nera.
[91] Figlio mio, io non mi dimentico di te.
[92] Figli miei, se non rispetterete la mia volontà sarete scomunicati: ognuno di voi, se avrà figli maschi, uno lo deve chiamare Calogero! In ogni famiglia ce ne dovrà essere uno! E così fù.
©Antonio Monaca
Tutte le informazioni riportate sono vere e desunte da atti e documenti pubblici con l’eccezione della dinamica dell’incidente e dei dialoghi fra i vari personaggi. Il testo è solo una bozza preparatoria di una raccolta più ampia e dettagliata ed è quindi naturalmente imperfetto. Tutta la terminologia tecnica utilizzata verrà successivamente chiarita e annotata nella raccolta definitiva. Ringrazio le famiglie dei marinai della “Martino Sigona” per le foto e le informazioni fornite. Alcune foto sono state reperite in rete e si prega, qualora si ravvisasse violazione delle norme sul copyright, di contattare l’autore per una pronta rimozione.
https://www.monaca.rg.it/2023/02/09/calogero-scala-e-il-brigantino-martino-sigona/
Un bastimento di mio nonno Martino affondo con due figli. goo chino giovanbattista Martino sigona
Esatto. Di questa storia fanno parte anche i due fratelli Sigona. Segui gli aggiornamenti.