Giornata della Memoria e dell’Accoglienza 2023
La notte del 3 ottobre 2013, davanti all’isolotto dei Conigli a Lampedusa, un barcone fece naufragio e 368 persone persero la vita. Sono le vittime dell’emigrazione. Sono le vittime di mercanti di uomini, sono le vittime collaterali delle guerre ma anche delle dittature, delle persecuzioni religiose e ideologiche, della fame. Si, la fame, l’impossibilità di garantire ai propri figli un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua. Non sono pochi quelli che, oggi, in Italia parlano di invasione, della necessità di respingere quanti attraversano il Mediterraneo alla ricerca di “pane”, che li considerano pericolosi delinquenti o possibili terroristi. A questi, invece, si aggiungono quelli che riempirebbero le proprie città di centri che chiamano di accoglienza solo per avere un’arma di ricatto nei confronti del governo che gli permetterà di chiedere soldi. Soldi. I “mercanti di uomini” cercano soldi, i governi che li fanno passare cercano soldi, gli scafisti cercano soldi, i paesi di arrivo cercano soldi.
Da quella notte del 3 ottobre 2013, secondo le organizzazioni internazionali, sono morti in 28.000, 1.100 dei quali bambini o adolescenti.
I “morti dell’emigrazione”, però, non sono solo africani o asiatici. Anche centinaia di italiani hanno subito la stessa sorte. Anche loro scappavano dall’Italia “per fame”. Le terre non producevano abbastanza e lo sfruttamento dei “nobili” proprietari terrieri, privava i contadini di quel poco che restava. L’America rappresentava la liberazione dalla schiavitù e offriva libertà e lavoro.
Il 25 febbraio 1891, il piroscafo Utopia lascia il porto di Trieste con destinazione New York. Armato dalla società inglese Anchor Line, il piroscafo era destinato al trasporto degli emigrati sulla tratta Trieste – New York. L’armatore, per sfruttare al massimo gli spazi della nave destinata al redditizio trasporto di poveri disperati che abbandonavano le campagne italiane, aveva eliminato la seconda classe. L’Utopia parte da Trieste con pochi passeggeri a bordo. Fa scalo a Messina e imbarca 7 persone, fa un secondo scalo a Palermo dove ne imbarca 57 e, infine, a Napoli imbarca la maggior parte dei passeggeri e cioè 727 persone di cui 140 sono donne e bambini. I membri dell’equipaggio sono 68 con ufficiali e sottufficiali inglesi.
Un piroscafo è una nave a vapore che usa il carbone come combustibile. Alla partenza, l’armatore avvisa il comandante di caricare solo il carbone necessario per arrivare a Gibilterra per favorire quel paese ma anche perché non si fidava del carbone disponibile in Italia e di quello napoletano in particolare. L’Utopia aveva molti viaggi all’attivo sulla tratta Trieste-New York e il comandante si era convinto che il carbone imbarcato a Napoli fosse carico di umidità oltre ad essere impuro e le due cose abbassavano il suo rendimento.
Con l’avvento della macchina a vapore, le navi cominciavano ad abbandonare progressivamente la vela a favore della propulsione meccanica e i comandanti anche se provvisti di una certa esperienza non erano ancora pienamente abituati ai metodi di previsione dei consumi e alla necessità di dotarsi di scorte di combustibile adeguati al viaggio da intraprendere. L’Utopia consumava giornalmente circa 24 t di carbone. Le leggi del tempo prevedevano che venisse imbarcata una quantità di combustibile sufficiente per il viaggio, sulla base dei giorni di navigazione previsti, aumentata di 1/5. Considerato che da Napoli a New York, solitamente, l’Utopia impiegava dai 12 ai 15 giorni, sarebbero servite 456 tonnellate di carbone. Alla partenza da Napoli, l’Utopia, aveva a bordo circa 120 t di carbone, appena sufficienti per arrivare a Gibilterra dove il comandante inglese, John McKeague, prevedeva di imbarcare il resto del combustibile. Il viaggio da Napoli a Gibilterra aveva, normalmente, una durata di circa quattro giorni ma, in quella stagione, delle perturbazioni si susseguivano nel Mediterraneo una dietro l’altra, rallentando la navigazione. Ci vollero cinque giorni per arrivare a Gibilterra e a qualche decina di miglia dalla destinazione, il capo macchinista avvisò il comandante di avere a bordo solo 7 t di carbone. Appena sufficienti per entrare in porto.
Le condizioni meteo di quel pomeriggio del 17 marzo 1896 erano pessime. Alle 18 era già buio pesto a causa della copertura nuvolosa. Pioveva a dirotto e il cielo era percorso da intense scariche elettriche. Viene avvistato il faro di Punta Europa.
Mare e vento a regime di tempesta, sospingono la nave in direzione Nord Ovest e il timoniere fatica a tenere la rotta. McKeague ordina di tenere la prua sul faro. L’Utopia navigava con mare e vento in poppa. Il comandante ha ordinato la chiusura di tutti gli accessi all’esterno per ovvie ragioni di sicurezza. È stato un viaggio tremendo. I passeggeri cercavano di attenuare il mal di mare uscendo sui ponti scoperti. Sottocoperta, in terza classe, i poveri emigrati, i bambini in particolare, soffrono tremendamente. Qualcuno, ogni tanto, svuota i “bagliuoli” usati per raccogliere il vomito di quegli uomini in preda a continui conati di vomito. Le maniche a vento della nave non garantiscono un ricambio d’aria sufficiente a disperdere quel tanfo che ha intriso persino le lenzuola di cotone grezzo delle brande. A circa 5 miglia da Punta Europa, il comandante ordina un’accostata a sinistra per portarsi al traverso del capo, doppiarlo ed entrare nella baia di Gibilterra protetto, in questo modo, dall’impeto delle onde.
La sorpresa per McKeague arriva appena supera Punta Europa e accosta a dritta per entrare nella baia. Mezza flotta inglese ha scelto di rifugiarsi in quel riparo. In particolare, due corazzate, la HMS Anson e la HMS Rodney occupavano proprio l’ancoraggio che solitamente usava McKeague per l’Utopia. Ordina subito una riduzione della velocità, e decide di passare fra prua delle due corazzate e il promontorio di Punta Europa. Ordina al timoniere di mettere la prua a Nord per dirigersi verso il Nuovo Molo.
Le navi militari, con i proiettori, scandagliavano la terra ferma che avevano a prua per verificare che le ancore tenessero l’ormeggio. Gli ufficiali di guardia sul ponte verificavano continuamente il rilevamento di punti fissi e controllavano ogni quindici minuti la posizione. Un proiettore dell’HMS Anson abbagliò il comandante dell’Utopia facendogli fare un errore di valutazione della distanza dalle due corazzate. Il forte vento che investiva la nave sul lato destro, sospingendola verso sinistra, contribuì a sottovalutare la distanza dalla due navi da guerra. L’Utopia aveva quasi superato la prua dell’HMS Anson quando la nave fu scossa da uno strano tremolio, come se avesse toccato qualcosa. Non poteva essere il fondo perché c’era acqua a sufficienza in quel punto. Forse una delle eliche aveva toccato la catena dell’ancora dell’Anson. Purtroppo, non era così.
Alle 18:36 il rostro dell’HMS Anson aveva aperto uno squarcio di diversi metri sulla fiancata poppiera sinistra dell’Utopia. La sala macchine ha un’importante falla e il direttore di macchina ordina immediatamente lo spegnimento delle caldaie e lo scarico del vapore per evitare un’esplosione per il prossimo contatto con l’acqua di mare. McKeague aveva pensato di portare la nave all’incaglio su un basso fondale che aveva a un miglio dalla prua. Avvisato dal capo macchinista dell’indisponibilità della propulsione ordina di mettere in mare le scialuppe di salvataggio e invia tutti i suoi ufficiali ad organizzare l’abbandono nave. Non fecero in tempo. In meno di cinque minuti la poppa dell’Utopia era completamente immersa facendo sbandare la nave a sinistra di circa 70°. In quelle condizioni le lance di sinistra erano perdute e quelle di dritta non potevano essere messe in mare e, inoltre, non erano in numero sufficiente per mettere in salvo tutti i passeggeri. Solo i coloro che si trovavano nei ponti più alti ebbero il tempo di uscire in coperta per gettarsi in mare. In soli venti minuti l’Utopia si ritrovò appoggiata sul fondo sabbioso della Baia di Gibilterra. Alcune decine di persone, fra passeggeri ed equipaggio, rimasero aggrappati agli alberi del piroscafo che fuoriuscivano dall’acqua e si salvarono. Altri, che si erano tuffati in mare, furono salvati dalle lance di salvataggio delle navi da guerra che prontamente si precipitarono sul luogo dell’affondamento. La maggior parte rimasero intrappolati all’interno della nave o annegarono per il risucchio provocato dall’Utopia mentre affondava. Erano in gran parte contadini. Gente che non aveva mai visto il mare e che non sapeva nuotare. Donne e bambini infagottate nei pesanti abiti invernali che, inzuppati, furono trascinati sul fondo.
Morino in 537.
Forse erano molti di più perché c’erano anche parecchi clandestini a bordo. Solo 294 si salvarono.
Nei giorni successivi, i palombari della marina inglese provarono a recuperare i corpi e si trovarono davanti ad una scena infernale. Sottobordo i corpi erano avvinghiati l’uno all’altro al punto da renderne impossibile la separazione. Appena si provava a separare quei poveri corpi le membra si staccavano rendendo quei tentativi traumatici per i poveri palombari che si trovavano, nel buio della nave, braccia, gambe e teste che fluttuavano nell’acqua intorbidita. La rimozione dei corpi fu messa in atto dopo alcuni mesi quando l’Utopia venne recuperata ma ormai erano irriconoscibili.
Il Regno d’Italia riconobbe, a titolo di risarcimento, la somma di 23 lire per ogni emigrante deceduto nel naufragio.
A bordo c’erano 35 siciliani provenienti da Mezzojuso, Termini Imerese, Casteltermini, Lucca Sicula e Marianopoli. Nessun pozzallese.
©Antonio Monaca