24 giugno 1497. Festa di San Giovanni Battista. Il Battista è ufficialmente festeggiato a Genova già da 170 anni e Genova è la città di Cristoforo Colombo che cinque anni prima ha scoperto il “nuovo mondo”. Oggi, Giovanni, probabilmente anche lui genovese, festeggia il suo onomastico scoprendo una nuova terra. Era partito da Bristol il 20 maggio. La traversata del “Mare Oceano” non era stata semplice. Perturbazioni una dietro l’altra, mare grosso, nebbia fittissima e freddo. Oggi, Giovanni Caboto, sbarca e pianta la bandiera inglese. Come Colombo pensa di aver raggiunto l’Asia. Non sa che quel paese che chiama “Prima Terra Vista” altro non è che l’estensione nord della stessa terra incontrata da Colombo. Costeggia la costa verso nord senza allontanarsene, annotandone minuziosamente il profilo e poi fa ritorno in Inghilterra a causa delle insofferenze del suo equipaggio. Arriva a Bristol il 6 agosto e viene accolto in modo trionfale meritandosi il riconoscimento di Enrico VII.
Giovanni Caboto e il figlio Sebastiano, ma anche i marinai della “Matthew”, così si chiamava la sua nave, raccontavano le meraviglie della nuova terra facendo diventare le minuzie enormi ricchezze. I marinai tendono sempre ad inventare storie fantastiche e ad ingigantire le loro avventure. Lo fanno per suscitare invidia, perché sotto l’effetto di alcool, per fare conquiste, ma anche per garantirsi il lavoro futuro. Più grandi sono le ricchezze che si possono conquistare e più è facile che qualcuno li arruoli per andarsele a prendere, quelle ricchezze. Su una cosa, però, non mentivano. Sulla grandissima quantità di pesce che si poteva prendere quasi con le mani. La “Matthew” aveva attraversato quelli che poi saranno chiamati “Banchi di Terranova” ed erano approdati sulle coste nord del grande continente americano. Nel punto in cui la corrente del Golfo che risale le coste americane e incontra quella fredda che scende dal Labrador, c’è un’altissima concentrazione di nutrienti ed è l’habitat ideale per i merluzzi. Enormi banchi di pesce nuotano tranquilli quasi senza essere disturbati. Nei secoli si è creato un equilibrio perfetto fra predatori e merluzzi tanto che, pur essendo frequentata da balene, orche, e delfini, quella è una delle aree mondiali a più alta concentrazione di pesce.
Dopo dieci anni dalla scoperta di Caboto, dalla Francia partono le prime navi che iniziano un’attività di pesca che non si è più fermata. In breve tempo le colonie che nascono in Nuova Scozia diventano le basi logistiche di un’intensa attività di pesca. I merluzzi vengono pescati con le lenze abboccando facilmente. Liberato un pesce dall’amo, il tempo di rimettere la lenza in acqua e subito un altro abbocca. Riempire un barile di pesce è questione di pochi minuti. Uno strato di sale e uno di pesce e avanti così fino a riempirlo per intero. Dalle lance, usate per pescare, i barili vengono stivati su bastimenti che, una volta a pieno carico, li portano a terra e da lì nel vecchio continente. Piano piano arrivano anche gli inglesi, gli spagnoli, i portoghesi, gli italiani. Dalla lenza semplice si passò ai palamiti, lenze lunghe chilometri che portano migliaia di ami e che permettono di pescare quantitativi enormi di merluzzi. È un’attività di pesca redditizia e, allo stesso tempo, pericolosa. Non si contano le navi scomparse. Centinaia di uomini diventati cibo per gli stessi pesci che pescavano. Le fitte nebbie, le onde enormi, il freddo pungente erano i principali nemici di quegli uomini dei quali non c’è più il ricordo; eppure, il loro sacrificio ha sfamato milioni di persone in Europa.
Nel 1874, a Varazze, un brigantino a palo viene varato con il nome di “Francesco B.”. Un brigantino a palo ha la caratteristica di essere più grande di un brigantino normale ed è dotato di tre alberi. L’albero più a prua, trinchetto, e l’albero centrale, maestra, dotati di vele quadre mentre l’albero più a poppa, mezzana, dotato di vele auriche (triangolari). Questa disposizione dell’alberatura e delle vele permette di avere una nave più grande, più maneggevole e più veloce di un brigantino che, invece, di alberi ne ha solo due. Nel suo primo anno di vita, il “Francesco B.” è impiegato nei commerci con la Crimea e Odessa. I noli per i carichi di frumento erano così vantaggiosi che con un solo viaggio l’armatore si ripagava dei costi di costruzione della nave. Rischi elevatissimi, ma coperti dalla Mutua Camogliese che diede forma ai primi contratti di assicurazione marittima.
Alle due e cinque del 9 novembre 1875, al numero 33 di “Strada Difesa”, a Pozzallo, Rachele Pluchinotta partorisce Emanuele Fede. Il papà, Antonino, il giorno successivo va all’ufficio di Stato Civile e denuncia la nascita del figlio. Tommaso Sigona, ufficiale dello Stato Civile, in sostituzione dell’assessore anziano che era al tempo impedito per un malessere, raccolse la denuncia di nascita annotandola sul registro degli atti di nascita del Comune. Antonino è un marinaio. Fortunatamente, alla nascita del figlio, è a casa dopo un lungo imbarco che aveva visto una breve pausa proprio nove mesi fa. Le nascite dei figli dei marinai di un tempo avevano una cadenza precisa. Primo figlio nove mesi dal matrimonio e poi uno ogni due anni, imbarchi permettendo. Antonino e Rachele si sono sposati il 16 aprile 1870 e l’atto di matrimonio fu redatto e firmato dal patriota garibaldino Raffaele Scala. Il primo figlio, Michelangelo, nasce il 22 marzo 1871. Se il primo figlio prende il nome del nonno paterno, gli altri prendono il nome dei fratelli del nonno paterno. Emanuele, prende il nome di uno dei fratelli del nonno. Emanuele sarà marinaio, come il padre. L’iscrizione fra la gente di mare avviene a Catania con numero di matricola 10042. Iniziano gli imbarchi su bastimenti di armatori locali, ma il giovane Emanuele non si accontenta di navigare sui piccoli legni. Imbarchi lunghi, faticosi, poco remunerati. Emanuele aspira a guadagnare bene perché, come quasi tutti, spera di trovare un lavoro a terra che gli permetta di stare con la famiglia che intende formare.
Il “Francesco B.” ha cambiato nome. Ora si chiama “Bertino”. La sua capacità di carico è di 763 tonnellate. È un veliero robusto di 51,84 metri di lunghezza, 10,19 metri di larghezza e 4,9 metri di pescaggio a pieno carico. Dopo gli impieghi sulla rotta per la Crimea, era stato impiegato in diversi viaggi per gli Stati Uniti. Il suo armatore, Giovanni Queirolo di Camogli, lo impiega nel trasporto di merluzzo pescato sui banchi di Terranova. Il brigantino portava ad Halifax, Nuova Scozia, gli equipaggi di marinai che davano il cambio a quelli che erano impiegati sulle lance intente alla pesca del merluzzo e ritornava con le stive piene di barili di pesce sotto sale e con i marinai che ritornavano a casa dopo essere stati sostituiti. Anche questi noli erano redditizi. Capitava anche di portare olio di balena e, in questo caso, i viaggi erano per l’Inghilterra o la Francia. Alla morte di Giovanni Queirolo, il “Bertino” passò agli eredi che continuarono ad impiegarlo sulla stessa rotta affidandolo al comando del Capitano di Lungo Corso Francesco Schiaffino, un grande professionista formato all’Istituto Reale di Marina Mercantile di Camogli e armatore lui stesso.
Durante un imbarco, Emanuele Fede arriva a Genova e in una bettola conosce un marinaio che racconta di guadagni favolosi, di viaggi che lo hanno portato in giro per il mondo, di avventure amorose facili e di navigazioni comode grazie agli spazi della grande nave sulle quali prestava servizio. Emanuele ha solo 22 anni. È affascinato da quei racconti. Sospetta che siano un po’ condizionati dagli effetti del vino, ma in fin dei conti quel marinaio, di qualche anno più grande, sembra essere sincero. Lui ha navigato solo nel Mediterraneo. Il viaggio più lungo che ha fatto è stato da Malta a Genova con una brigoletta di 23 metri per 7. Aveva visto i brigantini a palo ormeggiati a Genova e gli erano sembrate navi enormi. Con quelle barche affrontare una tempesta doveva essere come per la sua brigoletta passare attraverso un semplice piovasco. A un certo punto, quasi senza riflettere, chiede al marinaio se può raccomandarlo per un imbarco su quella nave. Certo non può lasciare la brigoletta che lo ha portato a Genova, ma può mettere le basi per un futuro sicuramente più ricco. I marinai pozzallesi sono conosciuti in tutto il Mediterraneo per la loro professionalità e per la loro abnegazione. Quel marinaio camogliese è imbarcato da un anno sul “Bertino”, suo padre e i suoi fratelli hanno sempre navigato con gli Schiaffino e promette ad Emanuele che avrebbe parlato con il suo comandante l’indomani mattina. I due si mettono d’accordo per rivedersi il giorno dopo nella stessa bettola, si salutano e ognuno si avvia per far rientro a bordo. Emanuele è eccitato, felice. Si considera già parte dell’equipaggio della grande nave e sogna mari e paesi lontani. Arrivato a bordo, il primo pensiero è quello di scambiarsi la guardia con un compagno per potersi recare, il giorno dopo, all’appuntamento fissato. Che notte. I cigolii delle strutture della brigoletta, che normalmente fanno da ninna nanna, tengono sveglio Emanuele mentre la sua mente è affollata da pensieri, sogni, ma anche dubbi e preoccupazioni. L’alba arriva presto. La giornata di lavoro sembra non finire mai. La brigoletta ha concluso le operazioni di scaricazione ed è pronta a ripartire. Emanuele ha appena il tempo per reincontrare il marinaio del “Bertino”.
Nel 1898 le comunicazioni erano lente e quelle urgenti viaggiavano per telegrafo grazie al codice Morse. L’armatore non potendo trattare direttamente per noleggiare le sue navi, aveva a bordo il suo uomo di fiducia, il capitano. Lo rappresentava in tutto e per suo conto assumeva decisioni e stipulava contratti. Il capitano Schiaffino, prima di tornare a Genova con un carico di merluzzi, di grasso e di olio di balena, ad Halifax, ha firmato un contratto per un viaggio da Pugwash nella Nuova Scozia fino a Cork in Irlanda con un carico di legname. Le foreste canadesi erano immense, mai sfruttate e il legno dei suoi alberi di ottima qualità. Certo il trasporto era costoso, ma quel legname, in Europa era pregiatissimo. Riferisce agli eredi di Giovanni Queirolo, attuali proprietari della nave, di questo contratto consegnandone copia. Scaricare 763 tonnellate di merluzzi sotto sale, di olio e grasso di balena non è operazione che può concludersi in pochi giorni. Per quanto i camalli genovesi lavorano alacremente, dopo una settimana solo un terzo del carico è stato portato a terra. Intanto, l’equipaggio, oltre a controllare le operazioni commerciali si occupava di manutenere le vele, l’alberatura, di controllare lo scafo, il timone e tutte le manovre del veliero. La nave doveva ritornare in Nuova Scozia che da un anno aveva assunto il nome di Confederazione Canadese. Il passaggio dell’Atlantico, in estate, non presentava grandi problemi, ma il viaggio di ritorno si sarebbe svolto, con ogni probabilità, nel mese di settembre e le perturbazioni nordatlantiche sarebbero state più intense. La nave doveva essere in perfetto stato di efficienza. Scaricazione terminata. Nave pronta a partire. Schiaffino decide di rinviare la partenza di un giorno. È il 24 giugno. Le ceneri di San Giovanni Battista, custodite nella cattedrale di San Lorenzo vengono portate al porto con una solenne processione guidata dall’Arcivescovo Tommaso Reggio. Schiaffino, idealmente, vede quell’evento come una benedizione alla sua nave che si appresta ad un lungo viaggio. Quei venerati resti erano a Genova già ai tempi di Caboto e i marinai liguri hanno sempre avuto una venerazione particolare per il patrono di Genova. Schiaffino, in verità, era molto devoto della Madonna del Boschetto e di San Fortunato della sua Camogli, ma aggiungere anche la protezione di San Giovanni Battista non avrebbe sicuramente irritato i suoi santi.
Fine agosto 1898. Il “Bertino” è ormeggiato a Pugwash, in Nuova Scozia. Emanuele Fede è a bordo. A Genova è riuscito a trovare un marinaio che lo ha sostituito sulla brigoletta ed ha firmato il contratto di arruolamento per imbarcarsi sulla grande nave. Il suo amico aveva ragione. Si sta comodi su quella nave. Il lavoro è tanto, ma non così pesante come sulla brigoletta. Il grande veliero naviga veloce, le sue vele non richiedono un grande sforzo, i bordi sono molto lunghi e i venti costanti. La traversata è stata tranquilla tanto da far pensare al giovane marinaio che i racconti sulle tremende tempeste dell’Atlantico fossero volutamente esagerate per impressionare chi li ascoltava. Quando arrivano il carico è già pronto. Tronchi enormi sono accatastati in banchina in attesa di essere stivati nelle grandi stive del brigantino. Ogni tanto bisogna fermare le operazioni di carico per la pioggia a tratti intensa. Appena cadeva la prima goccia di pioggia le stive venivano subito chiuse per evitare che l’acqua vi entrasse e potesse inumidire il carico. Il legno che caricavano aveva già iniziato la stagionatura che si sarebbe completata una volta a destinazione e farlo bagnare ne avrebbe compromesso la qualità per il sicuro sviluppo di muffe dato che le stive una volta chiuse sarebbero state riaperte a destinazione dopo circa due mesi. Pugwash è un piccolo borgo. Per Emanuele il raffronto con Pozzallo è scontato, ma ci sono differenze enormi. Prima di tutto il clima. Pozzallo è un borgo solare, Pugwash cupo per le nuvole e la pioggia. Le case pozzallesi sono in muratura mentre qui sono in legno. Le strade sono fangose per le piogge ed è un fango grigio, mentre a Pozzallo, quelle poche volte che piove, è più chiaro per la presenza di creta e sabbia e si asciuga facilmente. Emanuele immaginava un’America diversa. Non vede l’ora di ripartire e tornare in Italia. Finalmente il 10 settembre l’ultimo legno è a bordo. Il nostromo e il capitano controllano scrupolosamente il rizzaggio dei tronchi perché è un carico pericoloso per il fatto che, con il rollio, questi rotolano ed è per questo che vengono bloccati scrupolosamente con catene e cunei di legno fra l’uno e l’altro. Rizzaggio a regola d’arte. Si può partire e Schiaffino ordina al nostromo di preparare le vele e le manovre per il viaggio. Tutto quanto è in coperta viene rizzato con scrupolo, le stive sigillate con tela olona, le manovre messe in ordine, tutti i cavi accuratamente abbisciati, le lance di salvataggio e la barcaccia a poppa ben rizzate e verificate nelle loro dotazioni, timone libero, bussola di rotta verificata, argani pronti a salpare. A mezzogiorno si parte.
Emanuele è a prora, sulla rete del bompresso, la delfiniera. Il nostromo lo ha comandato di controllare le manovre delle vele triangolari sul bompresso. Quando si volta per tornare indietro vede il cielo sopra la nave nero come la pece. Si affretta a tornare a poppa dopo aver controllato anche le aspe dell’argano di prua e lungo i 45 metri che percorre, guarda a destra e a sinistra per accertarsi che tutto sia al suo posto. A poppa, accanto al timone trova il comandante che parla con il nostromo. Schiaffino sembra preoccupato. Il vento aumenta e quasi non si riesce a capirne la provenienza. La temperatura è scesa e il cielo è percorso da saette che vanno da oriente a occidente. Il barometro è in forte discesa. Forse è il caso di aspettare. Il capitano convoca attorno al piccolo tavolo di carteggio i suoi ufficiali e il nostromo per decidere sul da farsi. La Nuova Scozia, da luglio a ottobre, è spesso attraversata da uragani che provengono dall’Atlantico e pare che sia questa la situazione in cui si trova adesso il “Bertino”. È preferibile partire adesso per sfruttare la corrente di marea e il vento che viene da SO che aiuteranno il passaggio attraverso lo stretto di Northumberland. Lo stretto ha parecchi bassi fondali e rocce affioranti, ma basta tenersi al centro per evitare ogni rischio. Il veliero è a pieno carico e, quindi, la parte immersa della nave si comporterà come una deriva attenuando lo scarroccio che quel vento provocherà. Si parte. Il vento rinforza ancora. Schiaffino ordina di contenere la velatura per non sforzare gli alberi, per avanzare in sicurezza e per mantenere una buona manovrabilità.
Lasciato il piccolo porto di Pugwash, trainato da due lance, lentamente il bastimento si avvia ad immettersi nello Stretto. Un uomo è a prua per scandagliare il fondale. Proprio all’uscita della piccola baia, al centro, c’è una secca che bisogna aggirare e quando Schiaffino rileva Punta Pugwash per 45° a dritta, ordina di accostare a sinistra. Appena fuori dalla zona riparata, le due lance sono costrette a tornare indietro e a mollare la nave che, ora, dovrà continuare con la spinta delle sue vele. Superato il pericolo della secca, con l’aiuto del timone, si accosta a dritta e il “Bertino” si trova al centro dello Stretto. Il marinaio, scandagliando, conferma l’aumento della profondità che passa da 15 a 20 metri e poi a 25. Mura a dritta e andatura di lasco, con vento, cioè, che colpisce il lato destro della nave dalla parte poppiera. Pioggia intensa e leggera foschia. Schiaffino è sul ponte a controllare la manovra. Il vento, però, aumenta ancora. Arrivano anche raffiche improvvise e altrettanto improvvisi cambi di direzione. Anche se il sole tramonta alle 19:30 alle 18 è già buio pesto. Le uniche luci sono quelle dei lampi. Il veliero avanza lentamente. Schiaffino non vuole sforzare l’alberatura ed ha ordinato di ridurre la velatura al minimo. Nonostante il forte vento le onde sono formate, ma non creano grandi problemi. La poca acqua del canale non può generare onde di grande potenza. Il comandante è preoccupato per lo scarroccio che è difficile valutare perché non ci sono riferimenti terrestri. Da grande professionista cerca di individuare la scia a poppa grazie alla luce del fanale di coronamento, ma non riesce a vederla con certezza e quindi, anche questo possibile riferimento è assente. Ordina ad un marinaio di scandagliare sul lato dritto a poppa e cerca di identificare l’angolo che la sagola dello scandaglio forma con il fianco della nave, ma anche questo tentativo non è di nessuna utilità sempre per il buio pesto che non permette di capire il punto in cui la sagola entra in acqua. Non resta che continuare a scandagliare ed essere pronti ad intervenire quando si notasse anche una minima diminuzione della profondità. Schiaffino ha studiato attentamente la carta di quello stretto. Conosce a memoria le secche e le linee batimetriche riportate sulla carta e si regola su queste per capire dove si trova. Aspetta di vedere il faro dell’Isola di Wood che è in attività dal 1° novembre 1876, ma secondo i suoi calcoli sono ancora lontani. Dovrebbero trovarsi a circa 30 miglia dal faro. Il solcometro gli dà una velocità di circa cinque nodi. Dovrebbero poterlo vedere fra circa quattro o cinque ore. Il capitano lascia in coperta il primo ufficiale e va a riposare. La consegna è di chiamarlo immediatamente se dovesse notare una seppur minima diminuzione di profondità e tenersi pronti a manovrare. Per il resto alterni i bordi come meglio crede mantenendosi sempre al centro dello stretto. Superato il faro dell’Isola di Wood, il successivo riferimento è il faro dell’Isola Pictou e a quel punto basta puntare a nord per lasciarsi al traverso di sinistra l’Isola del Principe Edoardo.
Emanuele, intanto, pur accorgendosi della preoccupazione del capitano ne nota la sicurezza e le capacità professionali. Schiaffino conosce alla perfezione le reazioni della nave ad ogni manovra riuscendo a prevederne il comportamento. Terminato il suo turno di guardia scende sottocoperta. Toglie la cerata, i vestiti umidi, li appende alle estremità della sua amaca e indossa vestiti asciutti. Deve riposare. Si stende sull’amaca e si addormenta immediatamente cullato dal rollio della nave. Schiaffino, nella sua cabina, cerca di dormire, ma non ci riesce. Ripassa a mente la carta e le manovre da fare se il vento dovesse ancora rinforzare. Quelle coste non offrono alcun riparo. Inoltre, deve anche tenere in conto che quelle zone sono ancora in buona parte selvagge e fermarsi da qualche parte che non sia un porto metterebbe la nave a rischio di essere assaltata e depredata dai nativi. Ha l’impressione che sia aumentato il rollio. Si alza, indossa la sua cerata e sale in coperta. Ora il vento è ancora più forte. Piove a dirotto. Non si riesce a vedere la prua della nave. Il capitano si chiede se la voce del marinaio addetto allo scandaglio non possa essere coperta dai fischi generati dal vento e dai tuoni che sembrano potenti fuochi d’artificio e, mentre questo pensiero gli passa per la mente lo sente distintamente che riporta: 20 metriiiiii. Quella voce lo rassicura eppure una strana inquietudine non lo abbandona. Si trova a navigare in un mare che conosce poco, non sa quanto la carta sia affidabile anche se è stato rassicurato dal Capitano McDougall, pilota di Pugwash, sulla correttezza dei fondali riportati e inoltre, non conosce quanto la corrente di marea, sulla quale conta per uscire prima possibile dallo stretto, influisca sulla deriva della nave in quelle condizioni.
Una saetta squarcia il cielo proprio sopra le loro teste seguita, quasi nello stesso istante, da un tuono che fa sobbalzare il timoniere. È stato come lo schiocco di una frusta, ma ha prodotto un boato simile ad una potente esplosione. Emanuele, che fino a quel momento dormiva profondamente, si sveglia come se gli avessero dato un calcio. Ha bisogno di qualche secondo per ricordarsi di essere a migliaia di chilometri da casa sua, su una nave che vista in porto sembrava enorme e invincibile e che, ora, invece, in mezzo a quella tempesta, appariva più piccola e fragile di un guscio di noce. Non riesce più ad addormentarsi. Se il capitano Schiaffino è preoccupato per la nave, il carico e gli uomini, Emanuele è preoccupato per sé stesso. Perché ha accettato quell’imbarco? Non poteva starsene sulla piccola brigoletta? Non poteva cercarsi un lavoro a terra? A Genova, magari, in porto a fare il camallo? È un ragazzone robusto. Se avesse trovato l’amico giusto sarebbe potuto riuscire ad entrare nella corporazione degli scaricatori del porto di Genova. Sempre così. Quando si trova in mezzo ad una tempesta sono questi i pensieri che lo tormentano, ma basta che il mare e il vento si quietino e il tormento si trasforma in quiete dell’anima. Salta giù dall’amaca, indossa la pesante cerata e va in coperta. Appena mette piede sul ponte, trova il capitano quasi nello stesso punto in cui l’aveva lasciato che subito lo rimanda giù a chiamare tutto l’equipaggio. Emanuele si chiede che senso possa avere quell’ordine. Che succede? Che manovra ha intenzione di fare il capitano per aver bisogno di tutto l’equipaggio? Non bastano gli uomini che sono già in coperta? Obbedisce.
Il cielo è quasi costantemente illuminato dai lampi e Schiaffino approfitta di quella luce per guardare il mare dal lato da cui soffia il vento. Si consiglia con il suo primo ufficiale e con il nostromo. Ha l’impressione che la nave stia scarrocciando verso sinistra più di quanto ci si possa aspettare. Non può mettere su altre vele né può orzare più di tanto. Pensa di prendere il vento al traverso di dritta per passare ad una bolina larga. In questo modo il veliero recupererebbe acqua a dritta continuando a restare al centro dello stretto. Con quel vento non è facile compiere queste manovre ed è per questo che chiama tutto l’equipaggio. Quando Emanuele torna in coperta, il nostromo lo manda a dare il cambio al marinaio che a prua è allo scandaglio raccomandandogli di fare lanci continui. Il ragazzo obbedisce. Il marinaio è felicissimo di vederlo. Ha le mani congelate per il continuo contatto con l’acqua fredda, gli spruzzi di acqua salata sollevata dal vento e la pioggia incessante che hanno superato la protezione della cerata che indossa. Il beccheggio della prua unito al rollio rende quella semplice attività un tormento. In piedi in equilibrio precario devi lanciare il peso di un chilo e mezzo quanto più avanti possibile e quando la sagola è perpendicolare all’acqua recuperarlo contandone i nodi. Dopo una decina di lanci le mani cominciano ad indolenzirsi. L’acqua fredda e la ruvida sagola provocano piccole lacerazioni della pelle. Anche le mani più abituate, ispessite da callosità importanti, sono danneggiate da questo “trattamento”. Emanuele lancia, raccoglie e riporta: 20 metri. Rilancia, 19 metri. Altro lancio, 19 metri. Il “Bertino” ora rolla di più per il vento che riceve al traverso e Schiaffino lo sta portando all’andatura di bolina larga. Lancio, recupero, 18 metri. Altro lancio, 15 metri. Emanuele si chiede perché la profondità diminuisce così rapidamente e aumenta la velocità di lancio e recupero della sagola. Adesso i metri sono 10. Il pescaggio della nave è di 5 metri e quindi, i restanti cinque che ci sono sotto la chiglia sono pochi. Emanuele sente il capitano urlare ordini, ma con il rumore del vento e dei tuoni non riesce a capire. Lancia il peso ancora una volta e mentre inizia a recuperare la sagola, avverte uno scossone. La nave ha toccato qualcosa. Ha toccato il fondo?
Schiaffino ha capito subito che stavano per incagliarsi e lo scossone è stato la conferma. Il bastimento è andato in secca con il fianco sinistro. La marea è nella fase di reflusso e quindi, non può contare su di essa per liberare la nave. Ora è imperativo disincagliarla prima possibile per evitare che il vento e il mare, investendola sul lato di dritta peggiorino l’incaglio. Per prima cosa manda gli uomini a serrare le poche vele aperte e a bracciare i pennoni in modo da metterli paralleli al vento e fare in modo che l’incaglio non si aggravi. Subito dopo li manda a sondare le stive per verificare che non ci siano ingressi di acqua e a mettere in funzione le pompe di esaurimento. Le stive sono asciutte. Mentre alcuni marinai ispezionano le stive, il nostromo fa scandagliare lungo tutto il lato di dritta della nave. C’è acqua a sufficienza. Il capitano scende sottocoperta a consultare la carta. Si può provare a liberare la nave per rimetterla in galleggiamento, ma bisogna far presto perché la marea scende velocemente. Il lato sinistro del “Bertino” è stato adagiato da un’onda su una secca rocciosa. Altre onde potrebbero spingerla ancora e il fasciame non resisterebbe. Schiaffino ha studiato al Regio Istituto Nautico di Camogli e per la licenza di Capitano di Lungo Corso, ha usato il libro “Attrezzatura e Manovra della Nave per gli Istituti Nautici del Regno” scritto dal prof. Salvatore Villari del Regio Istituto Nautico di Palermo, a sua volta Capitano Marittimo e Tenente di Vascello della Regia Marina. L’esperienza, cumulata negli anni, ha confermato tutte le cose studiate ed è proprio quanto scritto da Villari che applica per liberare il “Bertino”. Ordina, di spostare sul lato dritto tutte le cose che sono in coperta. Lo scopo è di alleggerire il lato incagliato e provare a sfruttare le onde e la marea per liberare la nave. L’operazione viene svolta rapidamente. Per spostare il baricentro più in alto e facilitare l’abbattimento del veliero sul lato dritto, Schiaffino ordina a tutti di salire sugli alberi mentre lui resta in coperta con il nostromo al timone, un marinaio alla manovra della randa e un altro a prua, Emanuele, pronto a issare il fiocco. La prima onda che arriva fa muovere leggermente il brigantino. Schiaffino ordina ad Emanuele di issare il fiocco mentre lui aiuta il marinaio ad issare la randa terzarolata, cioè con superfice velica ridotta. Arriva un’altra onda ben più forte della prima, il “Bertino” sembra scuotersi, si solleva e si libera dall’incaglio muovendosi in avanti. Lo scafo sfrega contro le rocce e acquista lentamente velocità. Ora bisogna allontanarsi velocemente e portarsi al centro dello stretto, lontano dalle secche. Qualcuno viene mandato a sondare nuovamente le stive che ancora una volta risultano asciutte. Il fasciame in legno di quercia con cui è stato costruito il veliero ha resistito allo stress aiutato anche dalla fodera di rame che lo riveste. Lentamente la velocità aumenta. Emanuele è ancora a prua. È inzuppato d’acqua. La cerata non lo protegge più tanto è satura di acqua. Anche gli stivali che indossa sono pieni d’acqua. Ora che il bastimento è salvo spera di poter andare sottocoperta per riscaldarsi un po’. Il pericolo, però, non è ancora passato. Viene raggiunto da un altro marinaio che lo aiuta ad ammainare il fiocco e ad issare la trementina. Non fanno in tempo a completare l’operazione che uno scossone molto più forte del primo scuote il bastimento. Emanuele, vicino alla murata di dritta perde l’equilibrio e cade in mare. L’altro marinaio, mentre grida “uomo a mare, uomo a mare” lancia tutto quello che galleggia per aiutare Emanuele. Si affaccia dalla murata. Non vede nessuno. È buio pesto. Piove a dirotto. Gli occhi sono pieni d’acqua. Urla, chiama Emanuele, ma nessuno risponde. Il ragazzo è stato travolto dalle onde, trascinato lontano dalla nave e per il peso degli abiti pesanti e degli stivali pieni d’acqua va a fondo senza possibilità di tenersi a galla. Il bastimento, ora, è definitivamente perduto. L’acqua è riuscita a farsi strada nello scafo. Si salvano tutti, tranne Emanuele Fede, che da quel 12 settembre 1898 riposa sul fondo di un mare sconosciuto e lontano. È morto a 22 anni e 10 mesi inseguendo il sogno di una vita migliore.
©Antonio Monaca
Foto da: https://www.narraremare.it/arte_navale/page/2/ – http://www.agenziabozzo.it/antichi_velieri/ZZ_VELIERI/Dipinto_081_BERTINO_brigantino_a_palo.htm