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Anche nel 1917 esisteva il Codice Internazionale dei Segnali e ogni nave registrata aveva il suo “Indicativo di chiamata” come è chiamato adesso nel sistema GMDSS. Quando non esisteva la radio, l’unico modo per comunicare era quello visivo e, quindi, si usavano le bandiere per dichiarare la propria nazionalità e il proprio nome. Papa Golf Hotel Juliet era la sigla assegnata dal Registro Italiano Navale ed Aeronautico (R.I.N. ed A.) alla goletta “Ferdinando Sigona” di 83 tonnellate di portata netta, dotata di due alberi e di un bompresso. Gioacchino Sigona, armatore e padrone marittimo pozzallese, ne aveva ordinato la costruzione al prestigioso cantiere di Michele Donnarumma di Pozzano, Castellammare di Stabia. Nel 1912 Gioacchino firmò il contratto per la costruzione della goletta che intendeva utilizzare, unitamente alle altre unità della sua piccola flotta, sulle rotte del Mediterraneo e, quindi piccolo cabotaggio, ma non ne escludeva l’utilizzo anche fuori dagli stretti. La nave viene varata a gennaio del 1913, completamente armata secondo le prescrizioni del R.I.N. ed A. del tempo e sottoposta a visita per la sua classificazione il 26 gennaio dello stesso anno. Il risultato della visita ispettiva permette l’assegnazione della prima classe e l’abilitazione alla navigazione di Grande Cabotaggio. Mentre le navi abilitate al piccolo cabotaggio potevano navigare solo lungo le coste del mediterraneo, quelle abilitate al Grande Cabotaggio potevano uscire dalle Colonne d’Ercole, costeggiando Spagna, Portogallo, Francia, Isole Britanniche, Mare del Nord, Baltico e a Sud potevano costeggiare l’Africa fino al Senegal, potevano passare Suez e arrivare fino all’India. Per questo tipo di navigazione, però, il comando doveva essere assunto da un Capitano di Lungo Corso. La “Ferdinando Sigona” era, quindi una nave robusta, in grado di attraversare la temibile Biscaglia e i terribili Monsoni dell’Oceano indiano. La costruzione nel cantiere di Michele Donnarumma era, di per sé, una garanzia. Costruita in legno di quercia e pino, inchiodatura delle tavole del fasciame in ferro galvanizzato e metallo giallo per contrastare la corrosione, la goletta non aveva bisogno di rivestimento metallico come era in uso in quel tempo. Questa scelta fatta da Gioacchino Sigona era, ovviamente, dettata da ragioni economiche, ma anche perché la quercia usata per lo scafo era di ottima qualità e stagionatura e garantiva la durata nel tempo. Alla fasciatura in rame si sarebbe potuto ricorrere più in avanti, alla successiva visita allo scafo prevista per l’anno successivo. Il comando viene assegnato al padrone Emanuele Sigona e la goletta inizia la sua attività. Negli anni la “Ferdinando Sigona” vede riconfermata la classe e le visite ispettive non evidenziano nessun tipo di problema. Il 13 novembre 1914, a Siracusa, la nave viene tirata a secco, la carena ripulita, si procede a piccoli lavori di calafataggio e si ritorna il mare.
Arriviamo al 1917. Al comando della goletta c’è il padrone marittimo Gioacchino Antonio Sigona e cinque uomini di equipaggio, il marinaio Giuseppe Denaro, cognato della sorella del comandante e suo cognato diretto, il mozzo Tommaso Auteri, Francesco Auteri, Costantino Colombo e Luigi Ruta, zio del comandante. Caricazione terminata nel pomeriggio del 6 marzo. È troppo tardi per partire alla volta di Napoli. Il comandante ordina di preparare la nave per il viaggio. Si controllano tutte le dotazioni obbligatorie, le provviste e l’acqua potabile sono sufficienti per un viaggio di pochi giorni, la lancia di salvataggio viene rizzata per bene, tutte le sue dotazioni vengono accuratamente controllate e protette da pioggia e marosi, le manovre verificate, vele, alberi e pennoni controllati, salvagenti, gomene, scandagli, timone verificati e così via come la buona arte marinaresca e l’esperienza suggeriscono.
Alle 7 del mattino seguente, con vento leggerissimo da S.O. si parte da Siracusa. Appena fuori la punta di Ortigia, tutte le vele della goletta vengono messe al vento. Si naviga di lasco/gran lasco con mura, ovviamente, a sinistra e rotta Nord. Mare abbastanza calmo. La velocità media, calcolata con il solcometro, si attesta sui 2,5/3 nodi. Nonostante tutte le vele non si riesce ad andare più veloci. La “Ferdinando Sigona” tiene bene la rotta, c’è pochissimo scarroccio e pochissimo sbandamento navigando con questa andatura.
All’una, arrivati al traverso a sinistra di Capo Santa Croce, Augusta, il vento aumenta improvvisamente diventando impetuoso e girando contemporaneamente da Sud. Adesso tutte le vele sono pienamente portanti. Gioacchino valuta se sia il caso di diminuire la velatura, ma decide di andare avanti così. Con questo vento l’andatura è decisamente di gran lasco. La goletta prende il vento di poppa e continua il suo bordo con mura sempre a sinistra. Ora la velocità è notevolmente aumentata, si va a quasi 10 nodi. Se il vento resta così, passato lo Stretto, per arrivare a Napoli basterà un giorno circa di navigazione.
Alle sei del pomeriggio, il vento rinforza ancora. La goletta si trova tra Capo dell’Armi e Punta Tellaro in Calabria. Gioacchino ordina a tutto l’equipaggio di radunarsi in coperta. Come al solito, in queste situazioni, prende lui il timone mentre gli uomini vanno al loro posto di manovra pronti ad eseguire i suoi ordini. Con questo vento e il mare ingrossato l’unica cosa da fare era di ridurre la velatura. Terzarolare le rande e serrare buona parte delle vele. Meglio mettere il bastimento alla cappa. Mettere un bastimento alla cappa significa ridurre le vele al minimo possibile per poter riprendere la corsa in qualunque momento, ma nello stesso tempo arrestarlo quasi completamente. La nave prenderà il vento da prua e si aspetterà fino a che le condizioni di vento e mare non permettano di riprendere la navigazione. Mettere la nave alla cappa, tenercela contrastando mare e vento e, allo stesso tempo, proteggerla da marosi potenzialmente distruttivi è un’impresa che solo l’esperienza di tanti anni in mare permette di affrontare con sufficiente tranquillità. Gioacchino Sigona, ma anche i suoi marinai hanno esperienza da vendere. Restano in questa condizione per quattro ore. Intorno a mezzanotte il vento calma anche se il mare è molto grosso. Si prova a riprendere la navigazione, ma il bastimento è sottoposto a un forte rollio. Il mare è scomposto. Non si riesce a capire da dove arrivano le onde. All’una dell’otto marzo si scatena un vento furioso che, ora, proviene, da Nord. Si continua a restare alla cappa perché in queste condizioni non è possibile proseguire e attraversare lo Stretto di Messina. Non è nemmeno pensabile provare a raggiungere porti vicini per cercare riparo proprio per la forza di vento e mare. Provare a mettere qualche vela significherebbe correre il rischio di stressare qualche albero o pennone o, peggio, di danneggiarli. Alle tre il vento calma nuovamente. Si prova a riprendere il viaggio navigando di bolina, con il vento da Nord, quindi, di prua, ma fatte poche miglia si scatena l’inferno. Il vento, alle quattro, gira improvvisamente da S.O. e con il vento anche il mare. Cavalloni e marosi fanno a gara per salire sulla goletta. Gioacchino ordina di virare di bordo in avanti per provare a sfuggire alla condizione pericolosa che si è generata. La virata in avanti o virata di prua consiste nel cambiare le mura per passare da un’andatura di bolina ad un’altra prendendo il vento da prua. Prova per due volte, ma ogni volta è costretto a rinunciare. Decide allora di fare la stessa manovra ma virando in poppa. Questo tipo di virata permette il cambio delle mura, ma passando da un’andatura di lasco o gran lasco ad un’altra prendendo il vento di poppa. È una manovra più pericolosa perché porta il boma della randa ad effettuare un’ampia escursione, ma non ci sono alternative. Gioacchino ordina di ammainare la randa di maestra e di lasciare quella di trinchetto. Tutti i marinai al loro posto di manovra. All’albero di trinchetto erano il marinaio Giuseppe Denaro e il mozzo Tommaso Auteri. Il comandante, al timone, inizia la manovra. Gli spruzzi di acqua salata sollevati dal forte vento accecano gli uomini. Mentre la nave accosta, il boma della randa di trinchetto si sposta improvvisamente passando dall’altro lato e trascina con sé Giuseppe Denaro. La combinazione del rollio sul lato dell’accostata e il colpo ricevuto dal boma fa perdere l’equilibrio al marinaio facendolo cadere in acqua. Prontamente Tommaso Auteri urla “uomo a mare, uomo a mare” e Gioacchino cede il timone ad un marinaio che aveva accanto, prende un salvagente che è appeso sulla doga della camera, la parete esterna della tuga, e lo lancia in direzione del naufrago. Il salvagente cade ad una decina di metri dal marinaio. Giuseppe Denaro, forse per il colpo ricevuto, è a galla, ma non riesce a nuotare verso il salvagente. Intanto, Gioacchino Sigona ordina di alzare subito la randa di maestra per andare subito all’orza, portando la prua in direzione del vento e virare in avanti per provare a rintracciare il naufrago. Due marinai vanno sulle sartie per provare a tenere sott’occhio il povero marinaio e gli altri preparano la lancia per il recupero. Mettere la lancia in quelle condizioni di mare è molto rischioso, ma tutti si prontano per fare la manovra. I marinai sulle sartie non vedono né Giuseppe Denaro né il salvagente. Solo schiuma, tanta schiuma e onde che sembrano montagne. Ancora una volta l’abbigliamento pesante, l’acqua fredda e la forte corrente dello Stretto hanno avuto il sopravvento. Il mare da Sud irrompe continuamente sulla coperta della goletta. Continuare metterebbe in pericolo la nave e qualcun altro potrebbe venire trascinato in mare. Mettere la lancia in mare avrebbe significato la perdita sicura di altri uomini. Gioacchino Sigona riporta sul Giornale di Navigazione: “Grossissimo mare da Sud ci rompeva per fino in coperta, e tutti d’accordo quantunque di ottima volontà non ci fu possibile mettere l’imbarcazione in mare, perché, costituiva la perdita sicura dell’altra parte dell’equipaggio, che andava sull’imbarcazione medesima che fare in si doloroso momento, che ci fece perdere ogni speranza sia per il tempaccio che sembrava un inferno intorno, sia perché nulla e proprio nulla abbiamo potuto rintracciare.”
Con quelle condizioni meteorologiche non è più possibile proseguire e si decide di poggiare in direzione di Reggio Calabria. Alle 12, la “Ferdinando Sigona” si ancora nello specchio d’acqua interno del porto calabrese. Il comandante e il suo equipaggio si reca a terra e negli uffici della Capitaneria di porto denuncia la perdita del marinaio Giuseppe Giovanni Denaro fu Emanuele e di Concetta Ruta nato a Pozzallo il 6 settembre 1899 matricola 6155 della Gente di Mare del Compartimento Marittimo di Siracusa, avvenuta fra Capo d’Armi e Punta Pellaro alle 4:30 del giorno 8 marzo 1917.
©Antonio Monaca
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