Vittime di un incidente o di una guerra di spie?
Chi ha svolto il servizio militare in marina, a Taranto, ed è stato imbarcato su unità operative, ha sicuramente sentito parlare o ha letto il nome “Benedetto Brin”. All’Ammiraglio Brin, Ispettore Generale della Regia Marina, è infatti intitolato il grande bacino di costruzione e carenaggio dell’Arsenale Militare della città pugliese situato all’interno del Mar Piccolo. L’Ammiraglio Brin fu uno dei più grandi ingegneri navali della Marina Reale e, forse, di tutte le marine mondiali. Per quello che riguarda la storia che ci apprestiamo a raccontare, basti sapere che una delle maggiori corazzate della Regia Marina agli inizi del ‘900 portava il suo nome. L’Ammiraglio durante la direzione del Ministero della Marina aveva avviato un’intensa attività di rinnovo della flotta militare italiana. Le navi, costruite quasi tutte nei cantieri di Castellamare di Stabia, erano tecnologicamente avanzate e costruite con acciai speciali la cui composizione fu proprio una invenzione dell’Ammiraglio. Nel 1898 venne impostata la Nave da Battaglia Corazzata Regina Margherita e subito dopo, nel 1899, la Benedetto Brin che prese il nome dal suo progettista morto proprio nel 1898. La corazzatura e la struttura di queste due navi le rendeva temibili perché difficilmente affondabili e il loro armamento pesante permetteva un utilizzo sia in azioni di bombardamento costiero per la grande gittata dei loro cannoni, ma anche in azioni di guerra in mare perché in grado di fronteggiare le navi delle marine straniere. La corazzata Benedetto Brin fu varata il 7 novembre 1901, alla presenza di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
“Un varo magnifico… La Benedetto Brin era la prima nave che veniva varata già corazzata tutta! La corazzatura portava a 7000 tonnellate il peso di tutta la costruzione che giovedì, 7 corrente, scivolò sulle onde. Mai nei nostri cantieri s’eran viste navi scendere in mare colle torri corazzate sopra coperta, bell’e pronte!… La Benedetto Brin aveva la carena dipinta di verde oscuro: i fianchi di grigio: le torri corazzate sopra coperta in bianco. Giganteggiava bellissima per le linee armoniche da quello che si suol chiamare arsenale di Castellammare, laddove è solo un grandioso cantiere. Accanto alla Benedetto Brin compiuta, si vedeva sullo scalo lo scheletro della nuova corazzata Vittorio Emanuele III, in lavoro, Quarantamila spettatori salutarono la discesa del nuovo titano marittimo nei flutti. Ecco il quadro: Sul mare grandeggia la maestosa corazzata Sardegna che da Napoli ha condotto a Castellammare i Reali: e ai suoi lati stanno ancorate la Dandolo e la Sicilia che chiudono la ridente insenatura marina. Le tribune, gremite, sono a ridosso dell’ossatura in ferro della Vittorio Emanuele III; e molti spettatori son costretti a prender posto fra le costole dipinte in rosso di quella nave… Le allegre colline che coronano da un lato Castellamare sono stipate anch’esse di spettatori. I Reali passano applauditissimi. Il Re veste l’alta tenuta di generale: porta il Collare dell’Annunziata e la gran fascia verde dell’Ordine mauriziano, La Regina veste di velluto viola oscuro; sulle spalle, sul petto, sulla gonna, il suo abito è ornato di merletti bianchi, Si cerca invano il comm. Alfredo Micheli, che compì i disegni della nave cominciati da Benedetto Brin. Non è venuto. Arriva il vescovo per la benedizione di rito. Ha mitra e pastorale Seguito da ventiquattro canonici e da infiniti preti, fa il giro della corazzata e la benedice. Dopo la benedizione dell’acqua santa, quella del vino spumante. È per quattro volte, la Regina Elena, madrina della nave, dall’alto della passarella dov’è salita col Re, deve lasciar andare il lungo nastro azzurro cui è appesa la tradizionale bottiglia: questa, alfine, si frange sul fianco della corazzata e la irrora della sua spuma. Sono le 10.90: cominciano le operazioni del varo. Cadono i puntelli, e, alle 10.45, fra profondo silenzio, s’ode il contrammiraglio Grenet gridare: “Taglia! Le accette lucicanti di diversi operai scendono sul fasciame delle corde che ancora avvince a terra lo scafo della nave. Nel religioso silenzio, sode distintamente lo stridio del ferro che penetra nelle corde. “Si muove! grida quasi soffocata dall’entusiasmo una voce, “Si muove! gridano a un tempo mille voci. La gigantesca mole, avvolta dal fumo e dalle fiamme che si sviluppano intorno ad essa pel fortissimo attrito dello scafo sul piano inclinato, scende, maestosamente in mare. Un immenso clamor d’entusiasmo si innalza al cielo. Suonano tutte le campane delle chiese; suonano le campane dei vapori mercantili ancorati; rombano le artiglierie dei forti; le sirene urlano colla lor voce cavernosa; urrà! urrà! gridan migliaia di marinai aggrappati ai pennoni delle navi e i marinai saliti sulla “Benedetto Brin”; urrà ed evviva gridan gli operai che si abbracciano; e il pubblico batte le mani, agita i fazzoletti, i cappelli; è un delirio. A Roma, nel momento del varo, un gruppo di antichi amici e di subalterni di Benedetto Brin si recò al cimitero a deporre sulla tomba del grande ingegnere navale una corona. Pensiero gentile, che compì nobilmente la festa.” (N. 46/1901 dell’Illustrazione Italiana)
Dopo il varo, proseguirono i lavori di allestimento, i collaudi dei sistemi d’arma, dei motori, vennero fatte le prove in mare ed il 1° aprile 1906, a La Spezia, ricevette la Bandiera di Combattimento. Il suo motto era “Par ingenio virtus (Il valore è pari all’ingegno)”. Durante le prove, venne segnalata la pericolosità dei tubi di vapore che, dalla sala macchine dove si trovavano le caldaie, attraversavano il contiguo deposito munizioni. Dopo la segnalazione i tubi vennero prontamente coibentati. Nel 1914, l’allora comandante Gino Fara Fondi segnalò al Ministero della Marina delle carenze nel sistema di ventilazione dei depositi munizioni della nave e dei sistemi di coibentazione di questi locali rispetto alla sala macchine. Questa volta, però, non furono presi provvedimenti.
La corazzata venne, quindi, impiegata nel corso della guerra Italo-Turca del 1911. La guerra contro l’impero ottomano aveva lo scopo di conquistare la Libia e la Regia Marina fu particolarmente impegnata per contrastare i tentativi turchi di rifornire le guarnigioni libiche, ma anche in azioni di bombardamento delle città Tobruch e di Bengasi e delle postazioni turche nello Stretto dei Dardanelli. Allo scoppio della Grande Guerra, la nave si trovava all’ancora nel porto di Brindisi, sede del Comando del Basso Adriatico, assieme ad altre navi e sommergibili della Regia Marina. L’area di ancoraggio della “Brin” si trovava nel porto medio, in prossimità della spiaggia Fontanelle, adiacente a Marimisti, di fronte alla costa Guacina.
È il 27 settembre 1915. Sono passati appena quattro mesi dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Triplice Intesa (Francia, Russia e Gran Bretagna). Sulla “Benedetto Brin” i reparti si preparano per la cerimonia dell’alza bandiera. È una tranquilla giornata di settembre, senza vento, con cielo limpido. Alle 7:30 colazione pronta. I franchi sono tutti rientrati. Alle 7:55 il segnale bandiera che annuncia l’alza bandiera. Alle 8 in punto, l’Ufficiale d’Ispezione e la Guardia Armata si dispongono per la cerimonia quotidiana che si svolge con la solita solennità. Ai fischi d’ordinanza un marinaio inalbera velocemente la bandiera mentre la guardia è sull’attenti. In quei momenti tutto il personale in coperta si “congela”, si rivolge verso la bandiera a capo scoperto e si mette sull’attenti.
Il Comandante della 3ª Divisione Navale, Contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin, il Comandante della nave, Capitano di Vascello Gino Fara Forni e ventuno ufficiali erano riuniti a rapporto nel quadrato ufficiali di poppa e altri diciotto in servizio in macchina. Il resto dell’equipaggio formato da 758 uomini fra graduati e truppa si stava preparando all’assemblea dei reparti per l’organizzazione dei lavori di bordo. Otto e dieci, un boato terrificante, improvviso, inaspettato stravolge la nave. Una colonna di fumo e di gas di colore giallo e rosso di solleva dalla poppa della nave preceduta dalla torre poppiera con i cannoni da 305. Una massa di acciaio di decine di tonnellate di peso si solleva come fosse un fuscello e ricade in mare accanto al lato sinistro della nave sollevando una colonna d’acqua di qualche decina di metri. Fumaiolo e albero di poppa divelti. Pezzi di acciaio di diverse dimensioni cadono a pioggia per un raggio di un centinaio di metri. Mentre un incendio divampa violentemente, la nave affonda adagiandosi, senza sbandamento, sul fondo con la poppa, mentre la prua continua a restare fuori dall’acqua. La “Santa Barbara”, il deposito di munizioni principale, situato a poppa, proprio sotto la torre poppiera e dietro la sala macchine è saltata in aria. Gli ufficiali del quadrato di poppa vengono travolti dall’esplosione, unitamente a quelli presenti in macchina e con loro morirono altri 456 uomini. Alcuni furono dilaniati dall’esplosione al punto che rimasero solo piccoli brandelli, altri furono schiacciati dal crollo dei ponti e altri ancora restarono intrappolati nella parte della nave affondata. Di 369 marinai non fu possibile effettuare il riconoscimento per lo stato dei corpi oppure non furono mai ritrovati perché macellati dalla deflagrazione. Immediatamente dalle numerose navi presenti in rada partirono i soccorsi. Gli uomini sopravvissuti si erano radunati tutti a prua, disciplinati, senza urlare, senza tentare di abbandonare la nave, in attesa di ordini come testimoniato dal comandante di una nave militare francese che ne lodò il comportamento. I feriti vennero trasportati nelle infermerie delle altre navi della Regia Marina e di quelle della Marina Francese presenti in porto. Tanti altri vennero trasportati a terra e ricoverati nell’Ospedale della Croce Rossa e nell’Albergo Internazionale che fu immediatamente adibito ad infermeria. Tutta la città si riversò al porto. Lo spostamento d’aria provocato dall’esplosione aveva rotto i vetri di tutte le costruzioni della zona e lo scrostamento degli intonaci di molti palazzi ferendo anche alcuni passanti.
Un ragazzo di ventidue anni era imbarcato sulla corazzata. Faceva parte del Corpo Reale Equipaggi con la matricola n. 11735 ed il grado di cannoniere scelto. Francesco Sereno era nato a Scoglitti il 19 aprile 1893 figlio di Salvatore e di Ligresti Salvatora e risiedeva a Pozzallo. Al momento dell’esplosione era proprio alla base della torre poppiera. Il suo corpo non fu ritrovato. Una delle più tristi attività dei soccorritori fu quella di raccogliere tutte le parti anatomiche che galleggiavano attorno alla nave affondata o sui ponti rimasti fuori dall’acqua e fra quei resti c’erano sicuramente anche quelli di Francesco. I soccorritori non si fermarono un minuto facendo il possibile per recuperare tutti i feriti a cominciare da quelli più gravi. Il comune di Brindisi mise a disposizione un’area del cimitero cittadino per permettere il seppellimento dei resti dei marinai deceduti e i funerali dei primi marinai furono celebrati alle 16 del 28 settembre. Uno dei ragazzi della foto, non sappiamo chi, è Francesco Sereno.
Dalle città vicine cominciarono ad arrivare i primi parenti dei marinai deceduti e piano piano da tutta Italia ne arrivarono altri per procedere al riconoscimento e riportare i proprio cari a casa. Per tantissimi non si poté procedere ad alcuno riconoscimento per le condizioni in cui si trovavano i corpi; per altri non c’erano corpi interi ma solo parti anatomiche più o meno grandi. La città di Brindisi proclamò tre giorni di lutto cittadino e nel giorno dei funerali un lunghissimo corteo si snodò per le strade ancora sporche per i calcinacci caduti a causa dell’esplosione. Dietro alle bare c’era, in rappresentanza del Re che si trovava al fronte, il Duca degli Abruzzi Lugi Amedeo di Savoia e a seguire, il sindaco di Brindisi e una miriade di ufficiali di tutte le forze armate italiane e straniere.
La perdita di un così ingente numero di ragazzi provocò un’ondata di commozione in tutto il paese, ma anche di sdegno perché non si trovava giustificazione a quella che sembrava un’azione di guerra in piena regola. Se da una parte nessuno si risparmiò per portare soccorso, dall’altra, immediatamente si cercò di capire cosa fosse successo. Si era in guerra e, quindi, la causa più probabile dell’esplosione era da individuarsi in un’azione militare. Si pensò subito ad attacco sottomarino. Un sommergibile austriaco poteva aver lanciato un siluro e poteva ancora essere nei dintorni pronto a sferrare un altro attacco approfittando della confusione. Fu dato ordine ai sommozzatori di controllare lo stato degli accessi al porto, ma la rete di protezione era al suo posto. Nessun sommergibile poteva essere entrato né aveva potuto lanciare un siluro dall’esterno. Altra ipotesi che fu presa in seria considerazione fu la possibilità di un incidente dovuto ad un innesco dell’esplosione a causa di un incendio, non tempestivamente rilevato, provocato dal surriscaldamento del materiale esplosivo a causa dello scarso isolamento termico della sala caldaie dal deposito. Imputata principale fu la balistite. Alfred Nobel, che tutti ricordano come inventore della dinamite, brevetto numerosi altri tipi di esplosivo e fra questi un posto importante occupa la balistite perché permetteva di risolvere uno dei problemi derivati dall’uso della polvere da sparo e cioè lo sviluppo, a seguito dell’esplosione, di notevoli quantità di fumo. Il fumo, oltre a permettere l’immediata identificazione del cannone che sparava, comportava anche il crollo della visibilità dopo pochi colpi e questo era un grosso limite per i sistemi di puntamento delle batterie che erano di tipo ottico. Nel 1887, Nobel, a Parigi, inventò la balistite composta da parti uguali di nitroglicerina e nitrocellulosa, conosciuta anche come fulmicotone. Con questa miscela, Nobel, ottenne un esplosivo con bassa produzione di fumo il cui brevetto fu acquistato dall’Italia che iniziò ad utilizzarlo nelle cartucce dei fucili Carcano mod. 91. La balistite, però, era un esplosivo instabile, sensibile agli urti e alle temperature elevate e si erano già verificati incidenti provocati dal suo uso o dal suo stoccaggio. Nonostante queste evidenze e le segnalazioni di problemi di isolamento termico del deposito munizioni di poppa, le indagini si indirizzarono verso il sospetto di sabotaggio anche se, nel dubbio, dalle altre navi fu fatta sbarcare tutta la balistite presente nei depositi munizioni.
Fu istituita immediatamente una commissione d’inchiesta per stabilire le cause dell’esplosione e le eventuali responsabilità. Una commissione che lavorò instancabilmente per diversi mesi sotto la direzione del Duca degli Abruzzi. L’on. Antonio Salandra, Presidente del Consiglio, lo stesso 27 settembre, dopo essere stato informato dal viceammiraglio Presbitero, invia un dispaccio a Luigi Amedeo di Savoia e gli dà carta bianca nell’attività di ricerca delle cause dell’affondamento della corazzata. «Ho letto il rapporto dell’ammiraglio Presbitero relativo all’esplosione della regia nave Benedetto Brin. Vi si afferma che una commissione è stata nominata per procedere ad una immediata inchiesta intesa ad accertare le cause dell’esplosione. La commissione proceda pure alle sue constatazioni con l’aiuto dei tecnici che sono stati richiesti. Ma io, interprete e partecipe della grave impressione che la notizia della perdita della poderosa nave e di tante vite di valorosi ufficiali e marinai produrrà nel Paese, prego Vostra Altezza Reale di assumersi direttamente il compito di accertare le cause del doloroso fatto, ricercando, senza riguardo a persona, le eventuali responsabilità e rassicurando il Paese e la Marina, che deve e vuole essere esposta ai colpi del nemico, ma non a rischi immani derivanti forse da negligenze o acquiescenze, le quali, se vi sono state, debbono rigorosamente accertarsi, dichiararsi e punirsi».
La perdita di una delle più grandi e potenti navi da battaglia del mondo provocò un subbuglio nella Marina Militare. Il Ministro della Marina, Ammiraglio Viale, e il Capo di Stato Maggiore della Marina, Ammiraglio Thaon de Ravel, si dimisero dopo quattro mesi, quest’ultimo anche per disaccordi procedurali nelle indagini con il Duca degli Abruzzi. Le risultanze della commissione stabilirono che la causa dell’esplosione era da imputare alla balistite usata per le cariche di lancio e di scoppio dei proiettili. Forse per un incidente fortuito derivato dal maneggiamento della balistite da parte di chi, per ragioni di servizio, si trovava in quel momento nel deposito o per la sua autocombustione si innescò l’incendio a cui seguì la detonazione degli esplosivi contenuti nella Santa Barbara della nave. Questa conclusione era coerente con altri incidenti simili come quello della corazzata inglese Bulwark saltata in aria e completamente distrutta il 26 novembre 1914. Il complotto e il sabotaggio furono esclusi anche perché non si riuscì a trovare tracce di attività di spionaggio.
Il 6 marzo 1916, l’on. Astengo, savonese, chiese in Parlamento che venisse resa pubblica la relazione della Commissione d’Inchiesta anche per capire se vi fossero responsabilità individuate del disastro. La teoria dell’atto di sabotaggio, seppur esclusa dalla Commissione, continuava, però, a circolare negli ambienti militari e politici del tempo. Il 2 agosto 2016, a poco meno di un anno dai fatti di Brindisi, nel pieno della Prima Guerra Mondiale, nel Mar Piccolo di Taranto, salta in aria un’altra corazzata, la “Leonardo Da Vinci”. Muoiono altri 248 marinai. Altra commissione d’inchiesta, ma questa volta le indagini portano subito verso il sabotaggio. La commissione, inoltre, notando numerose somiglianze con l’esplosione della Benedetto Brin, mise in dubbio le risultanze della Commissione su quest’ultima.
L’Italia entra in guerra il 24 maggio del 1915 schierandosi con la Triplice Intesa formata da Francia, Gran Bretagna e Russia. Poche settimane dopo un grande incendio doloso provocò ingenti danni al porto di Genova e subito dopo toccò all’hangar dirigibili di Jesi pesantemente danneggiato da un attentato incendiario con l’uso di esplosivo. Fu subito chiaro che si trattava di un attacco organizzato dallo spionaggio nemico. Il controspionaggio della marina italiana disponeva di poche risorse economiche, ma riuscì lo stesso ad organizzare attività investigative per appurare chi fossero le spie e bloccarli prima che potessero fare altri attentati. Un altro attentato contro la fabbrica di dinamite di Cengio e un altro alla centrale idroelettrica di Terni, convinse la squadra investigativa che gli austriaci avessero creato una rete di spie in grado di operare in tutta Italia. A questo punto il controspionaggio della Marina, diretto dal Capitano di Vascello Marino Laureati, fu potenziato con uomini e mezzi perché era diventava imperativo impedire questi atti di sabotaggio. Un altro attentato a La Spezia distrusse un carro ferroviario carico di proiettili per cannoni navali provocando 265 morti fra civili e militari e subito dopo, il 27 settembre, la corazzata Brin salta in aria. L’esplosione della Leonardo Da Vinci fu la conferma delle tesi sostenute da molti di una rete di sabotatori che operava efficacemente per distruggere obiettivi militari e per demoralizzare le forze armate italiane.
Grazie a indagini serrate il controspionaggio italiano riuscì ad individuare il comando di questa rete spionistica. Non si trovava in Italia, ma nella neutrale Svizzera e precisamente nel consolato austro-ungarico di Zurigo. Era capeggiata dal console stesso, Rudolf Mayer, che in realtà era un Capitano di Corvetta della Marina Militare dell’Austria-Ungheria. Mayer aveva a disposizione ingenti somme di denaro che utilizzava per corrompere italiani disposti a vendere il loro paese per pochi spiccioli. Individuata la centrale operativa, bisognava identificare tutte le componenti della rete spionistica e il solo modo per farlo era di riuscire ad entrare nel consolato nemico per provare a carpire informazioni. Non era semplice. Bisognava violare un territorio diplomatico in una nazione straniera per di più neutrale nel conflitto. La Confederazione Svizzera era molto rigida nei controlli degli stranieri che varcavano i suoi confini soprattutto quando questi appartenevano alle nazioni belligeranti. Marino Laureati ebbe, a questo punto un’idea. Fondare una casa da gioco, un casinò, a Campione per permettere agli agenti italiani di svolgere la loro attività senza destare sospetti. Alla legazione diplomatica italiana di Berna venne aggiunto un Capitano di Corvetta, Pompeo Aloisi, a cui vennero affiancati, sotto le mentite spoglie di funzionari, agenti esperti dello spionaggio della Marina Italiana. Il piano progettato da Laureati era di entrare nel consolato nemico e di impossessarsi dei documenti conservati nella cassaforte che si trovava nello studio del console. Ad Aloisi vennero, poi, affiancati quattro uomini. Un militare, Stenos Tazini specialista torpediniere, a capo del gruppo che doveva compiere l’impresa e tre civili, Natale Papini, abile scassinatore, a cui era stata promessa la cancellazione di tutti i debiti con la giustizia e fatto uscire dal carcere appositamente, un avvocato romano, Livio Boni e un profugo dell’Istria, Remigio Bronzin. C’era anche un infiltrato che conosceva bene i locali del consolato e che era riuscito a procurare i calchi delle chiavi necessarie per entrarvi ed aprire le porte all’interno. Si era nel periodo di carnevale e Aloisi voleva approfittare proprio della confusione di quei giorni per provare a violare il consolato nemico. Il piano doveva essere messo in atto la notte del 22 febbraio 1917, Giovedì Grasso. I sei uomini, appena fu notte, si diedero appuntamento davanti al consolato. Gli austriaci erano sicuri dell’inviolabilità della loro sede diplomatica e confidavano nella rigidità dei controlli degli svizzeri e, quindi, durante la notte non avevano predisposto alcun tipo di sorveglianza. Il gruppetto, con un armamentario di attrezzi non indifferente contenuto in due grandi valige entrano dalla porta principale senza alcuna difficoltà. Per arrivare all’ufficio di Mayer bisognava superare sedici porte, tutte rigorosamente chiuse a chiave, ma non fu un problema. Con la copia delle chiavi, in commando, superò tutte le porte, ma, inaspettatamente, ne trovò una diciassettesima, anch’essa chiusa a chiave. Tutti sanno che il numero diciassette non è proprio un numero fortunato. Il doppiogiochista fece notare che quella porta era sempre aperta e non aveva mai visto una chiave nella toppa. Papini, si fece avanti, provò tutti i grimaldelli e gli attrezzi che aveva a disposizione, ma non riuscì ad aprirla. Bisognava usare mezzi più “decisi” che sarebbero stati anche più rumorosi ed avrebbero messo a rischio l’impresa. Aloisi, a questo punto, prese la decisione di rinunciare, di tornare indietro e riprovare quando anche la chiave dell’ultima porta sarebbe stata disponibile. Attenti a cancellare ogni traccia del loro passaggio, il gruppetto tornò indietro, chiudendosi alle spalle, una dopo l’altra, le sedici porte. Uno alla volta uscirono dalla porta principale prendendo strade diverse e si allontanarono dal consolato austriaco.
Il doppiogiochista fu più bravo del previsto. Il giorno successivo riuscì a trovare la chiave dell’ultima porta e ne fece il calco. Immediatamente fu fatta la chiave ed Aloisi decise di riprovare il 24 febbraio, Sabato Grasso. Nel pieno del carnevale, per il gruppo fu ancora più semplice passare inosservati. Penetrarono ancora una volta nel consolato dell’Impero Asburgico, superarono tutte le porte, diciassettesima compresa, e finalmente si trovarono davanti alla cassaforte del console. Papini impiegò molto più del tempo preventivato per aprirla, ma finalmente tutto il suo contenuto fu messo all’interno delle due grandi valige e portato via. Aloisi si accertò personalmente che venissero inviate subito a Berna e da lì, con i sigilli diplomatici, spedite a Roma. Tutto questo prima della riapertura della sede diplomatica del lunedì successivo. Finalmente la rete spionistica degli austriaci aveva le ore contate. I documenti contenevano una grandissima quantità di informazioni, ma, principalmente, nomi e cognome dei traditori. La polizia italiana arrestò numerosi cospiratori smantellando, di fatto, la rete di spie e ponendo fine agli attentati contro obiettivi militari e civili in territorio italiano. Di tutta questa vicenda, ovviamente, non esiste traccia scritta se non frammenti qua e la di quei documenti che furono utilizzati nei processi incardinati per condannare le spie e dalle commissioni d’inchiesta insidiate a seguito dei sabotaggi. Questa storia fu ricostruita a grandi linee dall’ex capitano di corvetta Marcantonio Brigadin ed inserita nel saggio “Il dramma della Marina italiana 1940-45”.
Riguardo all’affondamento della Benedetto Brin, da quelle carte non vennero fuori novità interessanti per cui ancora oggi, come riportato sul sito della Marina Militare Italiana, l’esplosione della Santa Barbara è attribuita ad un incidente o all’instabilità della balistite e lo stesso per la Leonardo Da Vinci. https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/storia/la-nostra-storia/accaddeil/Pagine/1915_09_27.aspx
Francesco Sereno, che pensava di essere al sicuro, protetto dalle corazze di una delle migliori navi da battaglia di tutte le flotte mondiali, perse la vita a soli ventidue anni, dilaniato da un’esplosione che ne disperse il corpo nelle acque del porto di Brindisi.
©Antonio Monaca