Giovanni il Battista e la città di Pozzallo
Piccola ricostruzione della vita del Santo e delle vicissitudini dei suoi resti
24 giugno 2024 – Cattedrale di San Lorenzo – Genova
«Quanta strada ha fatto San Giovanni!» Si, vero. «Quanta strada ha fatto San Giovanni» ho ripetuto al membro del Priorato Confraternite di Genova che teneva fra le mani il reliquario contenente un pezzo dell’ulna di San Giovanni Battista. Si riferiva alla distanza che separa Pozzallo da Genova perché gli raccontai che da quel pezzo di osso è stata tratta la reliquia che conserviamo nel braccio argenteo nella nostra chiesa parrocchiale.
Ma quanta strada ha fatto San Giovanni Battista? I 1400 Km da Genova a Pozzallo sono solo l’ultimo tratto di un percorso molto più lungo.
Nascita di San Giovanni Battista
Secondo la tradizione, San Giovanni Battista nasce in un villaggio, oggi diremmo in una frazione, di Gerusalemme. Il villaggio di Ain Karem dista da Gerusalemme solo 6 Km risultando, quindi, proprio per la vicinanza alla città, la posizione ottimale per la casta sacerdotale che, a turno, prestava il suo servizio nel Tempio. I suoi genitori, il sacerdote Zaccaria della classe di Abìa ed Elisabetta discendente di Aronne, non avevano avuto figli e si erano ormai rassegnati da tempo a non poterne avere. Non sappiamo di preciso quanti anni avessero i due al “tempo di Erode” (Lc. 1,5) quando l’Evangelista Luca colloca lo svolgersi degli eventi che ci descrivono la nascita, l’attività e la morte del Battista. Sappiamo solo che “…erano avanti negli anni” e questo equivale all’impossibilità di avere discendenti. Zaccaria, mentre si trova ad officiare nel Tempio, secondo il turno stabilito per la sua classe, è sorteggiato per entrare nella parte più sacra e fare l’offerta dell’incenso. Entra da solo mentre tutti gli altri sacerdoti restano fuori. Nessuno, quindi, è testimone di quanto succede e dobbiamo fidarci solo del racconto del pio sacerdote.
Facciamo una piccola digressione dal racconto per provare a identificare la data in cui Zaccaria fu incaricato di svolgere il suo compito. Non ci sono, ovviamente, evidenze scientifiche. Si tratta solo di supposizioni basate, però, su alcuni dati ricavabili direttamente dalle Sacre Scritture e da cronisti del tempo.
San Luca ci tiene a dire di aver svolto accurate ricerche prima di scrivere il suo Vangelo allo scopo di fornire a Teofilo, al quale è dedicato, ma anche a noi che lo leggiamo oggi, informazioni che, se false, potevano essere facilmente smentite dai testimoni di allora ancora in vita. Incrociando dati provenienti da fonti diverse, possiamo identificare nell’anno 3 a.C. il periodo nel quale si svolsero i fatti che precedono la nascita di San Giovanni.
Il re Davide aveva disposto che le classi sacerdotali fossero 24 e ognuna di queste doveva prestare il suo servizio nel Tempio per una settimana due volte l’anno. La classe sacerdotale alla quale apparteneva Zaccaria era l’ottava del ciclo dei turni sacerdotali e per quell’anno, secondo il nostro calendario, il servizio iniziava sabato 14 settembre e finiva il sabato 21 successivo. Fra tutti i sacerdoti in servizio, per sorteggio, venivano scelti i compiti di ognuno e a Zaccaria toccò uno dei più ambiti e delicati: il servizio dell’offerta dell’incenso. Era il terzo sorteggio della giornata e l’offerta dell’incenso, secondo la scrittura, veniva considerato il servizio più gradito a Dio. Solo una volta nella vita si poteva essere sorteggiati proprio per garantire a tutti di poterlo officiare almeno una volta nel corso della propria attività sacerdotale. Zaccaria, che, come sappiamo, è un sacerdote anziano, aspetta con trepidazione di poter salire all’Altare dell’Incenso del Tempio e offrire a Dio le sue preghiere. Prende il grande cucchiaio dorato usato per spargere la resina e i due vasi che lo contengono, aventi dimensioni diverse. Quello più piccolo, pieno fino all’orlo, è inserito all’interno di un vaso più grande per raccogliere quello che eventualmente si dovesse riversare durante il trasporto. È accompagnato da un altro sacerdote, anche lui sorteggiato, che ha il compito di portare la “paletta” che serve a spargere sull’altare i carboni accesi sui quali l’officiante spargerà l’incenso. Avviandosi verso l’Altare, il sacerdote, che accompagna Zaccaria, prende un particolare rastrello usato per rimuovere la cenere eccedente dall’altare e lo lascia cadere a terra per indicare a chi sta fuori che i due stanno per inginocchiarsi alla presenza di Dio perché s’inginocchino a loro volta. Altri due si univano, poi, alla piccola processione, precedendoli e insieme salivano i dodici gradini che portavano all’Altare. Uno di questi entra per primo, e ha il compito di rimuovere la cenere in eccesso e di spargere meglio i carboni accesi uniformando la brace. Terminato il compito si inchina ed esce dalla sala. Gli altri sacerdoti, compreso Zaccaria, stanno prostrati adoranti. Entra il secondo sacerdote che si occupa del “menorah”, il candelabro a sette braccia simboleggianti i sette giorni della creazione. Il suo compito è di controllare l’accensione delle lampade, la quantità di olio, lo stato di consumo degli stoppini e di provvedere alla pulizia del candelabro. Inizia dalle due lampade poste sul lato orientale del candelabro. Se le avesse trovate ancora accese avrebbe dovuto spegnerle, ripulire la sede dai residui incombusti dello stoppino, rimpinguare l’olio, sostituire lo stoppino e riaccendere la fiamma. Passa, quindi, a quelle occidentali, dalla seconda dall’estremità, che, invece, non spegneva. Se, invece, la trovava spenta, allora, ripeteva gli stessi passaggi già fatti per le altre lampade e riaccendeva la fiamma. A questo punto raccoglieva tutti i residui del lavoro di pulizia, si inchinava profondamente e usciva dalla sala. Ora tocca a Zaccaria. Il suo aiutante gli mette un po’ d’incenso nel cavo delle mani e lo accompagna all’interno della sala portando i vasi e il grande cucchiaio dorato, li appoggia ai piedi dell’altare, s’inchina ed esce dalla sala lasciandolo l’officiante da solo.
È indescrivibile l’emozione che prova Zaccaria. In cuor suo prega ancora Dio perché gli conceda la grazia di un figlio. È un suo sacerdote, lui e sua moglie Elisabetta sono sempre stati fedeli agli insegnamenti biblici, hanno sempre avuto un comportamento rispettoso dei comandamenti. Perché Dio gli ha riservato una così grande punizione? La sterilità era, soprattutto per un sacerdote, una prova di vita peccaminosa e poi non gli permetteva di assicurarsi una discendenza. Forse ora che era alla presenza di Dio, l’incenso avrebbe portato la sua preghiera fino alle narici dell’Onnipotente e dal suo respiro avrebbe potuto ottenere quanto desiderato. Emozionato, con le mai tremanti, prende con il cucchiaio dorato dal vaso piccolo una buona quantità d’incenso stando attento a non farne fuoriuscire nemmeno un grano e a non farlo cadere per terra. Inizia a spargere l’incenso sulla brace e subito un intenso fumo, profumatissimo inizia a salire verso l’alto. Da lontano sente il canto dei leviti che dalla spianata accompagnano le cerimonie che si svolgono all’interno del Santuario ed è in quel momento che con gli occhi lacrimanti per il fumo e l’emozione e il cuore immerso nella preghiera ha l’impressione di vedere un uomo sul lato destro dell’altare. Non può esserci nessuno nella sala. Nessuno può entrare. Sicuramente è un effetto ottico provocato dal pungente fumo dell’incenso che ha iniziato a distribuire dal lato sinistro dell’altare. Apre e chiude gli occhi più volte e quella figura è sempre lì, a pochi metri da lui. Non è un sacerdote, non ha gli abiti sacerdotali. Emana una luce particolare che non riesce a definire. Dio? Forse è Dio. Ma perché Dio gli si manifesta? Sarà per le sue preghiere? Mille domande, mille pensieri ha in testa e la paura prende il sopravvento. È proprio in quel momento che quell’uomo dal volto indefinibile, vestito in modo indefinibile e avvolto da una strana e intensa luce gli rivolge la parola.
«Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto». (Lc. 1,13-17)
La voce di quell’uomo, che il Vangelo identifica con un Angelo, libera Zaccaria dallo spavento. Rientra in sé stesso e, pur cosciente che quanto gli succede è un evento sovrannaturale, una manifestazione divina, la realtà della sua condizione umana lo pone davanti ad un dubbio e rivolgendosi all’Angelo gli chiede: «Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni». L’angelo gli rispose: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio. Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo». (Lc. 1,18-20)
Il Vangelo ci dice che gli altri sacerdoti si accorsero che Zaccaria impiegava più del tempo normalmente previsto per adempiere ai suoi compiti. Questo ritardo poteva essere dovuto a un incidente, un malore oppure a qualche evento prodigioso ed ebbero la conferma della seconda ipotesi quando Zaccaria, uscendo dalla sala, non parlava più. Zaccaria termina il servizio al tempio il 21 settembre e torna a casa. A questo punto è lecito supporre che il concepimento del figlio preannunciato dall’Angelo si sia verificato dal 22 settembre in poi. La tradizione della Chiesa festeggia, in modo solenne, la nascita di San Giovanni Battista il 24 giugno, esattamente nove mesi dopo la data del possibile concepimento.
Inizio della predicazione
Dunque, secondo l’Evangelista Luca, contrariamente alle usanze del tempo, il figlio di Zaccaria ed Elisabetta, fu chiamato Giovanni che significa YHWH è Misericordia. Zaccaria essendo muto dopo aver incontrato l’Arcangelo Gabriele nel Tempio, scrive il nome del figlio su una tavoletta e in quello stesso istante riprende a parlare lodando Dio per la sua Misericordia, per essersi ricordato della sua promessa di inviare un “sole che sorge”, l’Altissimo, al quale Giovanni preparerà la strada. Giovanni pur appartenendo, per diritto di nascita, alla classe sacerdotale non viene avviato al servizio nel Tempio e Luca ci dice solo che trascorrerà la sua fanciullezza e adolescenza nel deserto vivendo una vita ascetica. È probabile che abbia frequentato la comunità essena considerato che, per la citazione ripetuta dei Sacri Testi, dimostra di averne una profonda conoscenza. Secondo molti studiosi, il Battista vive una vita ascetica simile a quella praticata dagli esseni del monastero di Qumran, non si è sposato come era quasi obbligatorio fare per gli ebrei e il battesimo, che predicherà in seguito, ha delle similitudini con le abluzioni purificatrici praticate da quelle comunità di monaci. Il giovane Giovanni, però, non pare essere parte integrante di quella comunità. Ne ha imitato la vita ascetica proiettata all’attesa del Messia, ma, probabilmente, vive la sua vita in un suo eremitaggio personale. Quando arriva il momento, che Luca colloca al quindicesimo anno del regno dell’imperatore romano Tiberio (28 d.c.), ispirato dalla Parola di Dio, Giovanni inizia la sua predicazione. Ha immediatamente un grande seguito sia perché ha tutte le caratteristiche e l’autorevolezza di un profeta considerato che da tanto tempo non si manifestavano profeti in Israele, ma anche perché gli ebrei erano in attesa del Messia e Giovanni, con la sua predicazione, ne preannunciava l’arrivo. Non trascurabile era l’influenza dovuta all’oppressione romana e dei suoi rappresentanti locali. Giovanni ha un gruppo di discepoli che lo segue nei suoi spostamenti ed è probabilmente a loro che si rivolge quando indica in Gesù «…l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». (Gv. 1, 29-31)
Come sappiamo dai Vangeli, la predicazione di Giovanni Battista diede fastidio ad Erode Antipa, il quale aveva sposato, per motivi di convenienza politica, una figlia del re nabateo Areta IV. Il re dei Nabatei, popolo confinante a occidente di Israele, approssimativamente l’odierna Giordania, era riuscito ad ottenere dai romani una quasi totale indipendenza. Areta IV aveva dato un fondamentale aiuto all’imperatore romano Augusto nel riportare la pace nella regione sostenendolo nel corso della guerra giudaica scoppiata dopo la morte di Erode il Grande. Erode Antipa, uno dei figli di Erode il Grande, aveva tutto l’interesse a legarsi con Areta IV. Sposare una delle sue figlie gli avrebbe consentito un maggior rispetto da parte dei romani e gli avrebbe anche garantito la protezione e l’assistenza dei Nabatei nell’eventualità di insurrezioni interne. Nel corso di un suo viaggio a Roma, Erode Antipa, avviò una relazione con Erodiade, moglie del suo fratellastro Erode Filippo I. Dunque, Erode Antipa ripudia la moglie e lo stesso fa Erodiade con il Marito Erode Filippo I. Le relazioni familiari, in realtà, erano molto più complesse di come vengono narrate nei Vangeli dove alcuni aspetti, non apportando alcun elemento utile agli scopi evangelizzatrici, non vengono approfonditi. Provo a schematizzarle per renderle più comprensibili.
Erode Antipa era figlio di Erode il Grande e della quarta moglie di questo, Malthace.
Erode Filippo era anche lui figlio di Erode il Grande e della sua terza moglie, Mariamne II.
Erodiade, figlia di Antipatro, primo figlio di Erode il Grande e la prima moglie, Doride. Questa, dunque, si era sposata con il fratellastro del padre. Quando, poi, si sposa con Erode Antipa, fa la stessa cosa. Sposa un altro fratellastro del padre.
Quest’ultima relazione non era ben vista dagli ebrei e ancora meno da quelli osservanti in considerazione del fatto che aveva avuto inizio quando Erode Filippo era ancora in vita, ma, soprattutto, non era consentito alla moglie di ripudiare il marito.
Morte di Giovanni Battista
Giovanni Battista, figlio di un sacerdote, educato alla fedeltà alle scritture, non poteva permettere che questo cattivo esempio venisse tollerato. Questa sua posizione portò Erode Antipa alla decisione di farlo arrestare. Quel continuo “non ti è lecito” suonava alle orecchie di Erode come una minaccia politica perché creava malumori e rischiava di essere motivo di ribellioni che, una volta avviate, potevano mettere a rischio il suo regno. Mentre i Vangeli evidenziano l’immoralità della situazione, uno storico del tempo, Giuseppe Flavio, libero da condizionamenti religiosi, evidenzia invece i rischi di natura politica. In questo caso, però, le due motivazioni, politiche e religiose, che portarono all’arresto di Giovanni Battista coesistono forse in egual misura, tanto è vero che all’arresto non segue immediatamente l’uccisione del Profeta. Questo è un evento successivo e inevitabile perché conseguenza di una forma subdola di ricatto esercitata da Erodiade attraverso la figlia Salomè. Per Erodiade, infatti, al rischio che il marito potesse perdere il potere si aggiungeva anche l’odio nei confronti di Giovanni Battista a causa delle accuse di immoralità che le venivano rivolte direttamente e che erano motivo di disprezzo anche all’interno della corte di Erode. Così come indicato da Giuseppe Flavio, il Profeta, dopo l’arresto, viene richiuso nella fortezza del Macheronte dove quasi sicuramente viene eseguita la decapitazione di Giovanni facendolo diventare, così, il primo Martire del cristianesimo.
Tolto di mezzo l’accusatore i rischi si sono azzerati? Secondo Giuseppe Flavio, no. Anzi è proprio nella sentenza di morte ingiusta che gli ebrei sembrano individuare la fine del regno di erode Antipa ad opera del suocero per vendicarsi del trattamento che Erode ha riservato alla figlia; e questo, nonostante, la convinzione di Erode di poter contare sul sostegno dei romani che, invece, lo ignorano a causa della contemporanea morte di Tiberio, re di Roma.
Dunque, il Battista è morto, ma che fine fanno i suoi resti? Possiamo solo affidarci alla tradizione la quale, però è supportata da deduzioni logiche che ne fanno supporre la veridicità. Giovanni aveva un numeroso gruppo di seguaci. Aveva battezzato tantissimi ebrei alcuni dei quali, presumibilmente, seguirono Gesù. In tutta la Giudea è documentata la presenza di “Battisti” (discepoli di Giovanni Battista) e questi avevano tutto l’interesse a custodire i resti del loro ispiratore che consideravano un profeta. Il Vangelo dice che “I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù”. (Mt. 14,12) Dopo la morte e la sepoltura, i resti del Battista, rimasero per poco tempo nelle vicinanze della fortezza che lo vide prigioniero. I suoi seguaci, preoccupati da un possibile tentativo di farne sparire il corpo orchestrato dalla perfida Erodiade, fecero in modo di trasferirlo lontano dalla sua sfera territoriale d’influenza. Giovanni il Battista fu traslato a Sebastia, in Palestina.
Traslazione a Sebastia, Alessandria, Tebe e Myra
Ancora una volta ritorna la figura di Erode il Grande che, sul sito dove sorgeva l’antica capitale del Regno Israelita del Nord, fece costruire, intorno al 25 a.C. questa città. Non ci sono documenti che provano questa traslazione, ma basandoci sulle considerazioni che seguono, si può ritenere che la tradizione possa avere un fondo di verità. Sarà Rufino di Aquileia a raccontare della reazione dei pagani contro il cristianesimo sulla spinta delle idee di Giuliano l’apostata.
Flavio Claudio Giuliano chiamato Giuliano l’apostata, diventato imperatore romano, provò a ripristinare l’antico culto degli dèi così come professato dalla religione classica romana. Non può propriamente dirsi che Giuliano fosse un persecutore dei cristiani, ma il suo tentativo di ripristino degli antichi culti, fu visto dai pagani, che mal sopportavano il cristianesimo, come un incitamento a contenere l’influsso crescente di questa “nuova” religione e dei suoi adepti. Tra il 362 e il 363 d.c. diverse chiese cristiane vengono profanate, soprattutto quelle costruite su vecchi templi romani e con esse anche le tombe di quei cristiani venerati come santi. A queste profanazioni non sfuggi la tomba di Giovanni il Battista. Jacopo da Varagine racconta che i pagani di Sebastia si accanirono particolarmente contro la tomba del Profeta Giovanni perché i miracoli che presso di essa si verificavano erano un ostacolo alla restaurazione del culto agli dèi romani. Essi aprirono la tomba e calpestarono le ossa del Battista frantumandole per poi incendiarle allo scopo di ridurle in polvere e disperderle. Proprio in quei giorni, un gruppo di pellegrini, monaci provenienti da Gerusalemme, si trovano a Sebastia per pregare sulla tomba del Battista e rendendosi conto di quanto stava accadendo, confondendosi con i pagani partecipano alla profanazione con l’intento, però, di trafugare quanti più frammenti possibile delle ossa del Santo. Riescono nell’impresa. Rinchiudono in una scatola di legno tutti i frammenti ossei, più o meno grandi, che riescono a salvare e le portano a Gerusalemme, consegnandole nelle mani dell’Abate del loro monastero, Filippo. Anche i luoghi sacri della città santa erano, comunque, soggetti all’azione distruttrice dei pagani e l’Abate Filippo decise di consegnare le Sante Reliquie al vescovo Atanasio di Alessandria d’Egitto per metterle al sicuro. Quasi di nascosto quei frammenti ossei furono trasferiti e deposti da Sant’Atanasio sotto l’altare della Basilica dedicata a San Giovanni Battista sorta sulle rovine del tempio dedicato al culto di Serapide. Anche ad Alessandria, però, i resti del Precursore erano in pericolo. Il 24 ottobre 362, Atanasio venne cacciato da Giuliano l’Apostata e fu costretto a rifugiarsi a Tebe aiutato da alcuni suoi discepoli. A questo punto è possibile che abbia portato con sé le reliquie del Battista che per le dimensioni contenute erano di facile nascondimento e trasporto. Non ci sono notizie documentate in merito. Solo Jacopo da Varazze riferisce di aver letto nella “Leggenda del beato Nicola” che questi avesse ricevuto da Atanasio le reliquie del Battista e dopo averle rinchiuse in un’urna di marmo le collocò sotto l’altare della sua chiesa, raccomandando ai monaci di seppellirlo accanto a quelle sacre reliquie alla sua morte. In realtà, spesso, la vita di San Nicola da Myra, nei secoli, è stata confusa con quella di un altro monaco, Nicola di Sion, morto nel 564. Secondo Padre Gerardo Cioffari O.P., uno dei massimi studiosi della vita di San Nicola di Myra, questa confusione fra i due “Nicola”, può aver generato anche un’errata attribuzione a San Giovanni Battista dei resti trafugati, come vedremo, dai genovesi. Dallo studio delle fonti attualmente disponibili, P. Gerardo Cioffari, fissa la morte del vescovo Nicola al 337 d.C. e Iacopo da Varazze, nella sua Legenda Aurea, la pone al 343 d.C. con ambedue le date in contrasto con quella del tentativo di distruzione delle reliquie indicata al 362. La morte di Nicola da Sion risale, invece, al 564 d.C. rendendo quest’ultimo il possibile Nicola indicato da Jacopo da Varazze. Purtroppo, non c’è modo di avere certezze perché non esistono documenti storici che possano dirci con precisione che Atanasio portò le reliquie giovannee a Tebe e che da qui arrivarono al monastero di Nicola da Sion che si trovava a circa 20 chilometri a nord-est da Myra.
Genova e le Sacre Ceneri
Ma se le reliquie del Battista erano custodite a Myra, come sono arrivate a Genova?
613 d.C., in un villaggio situato nella penisola arabica, Maometto inizia la sua predicazione. In brevissimo tempo questa nuova religione conquista i popoli arabi spesso anche con la forza. Già nel 614 i Persiani erano riusciti a conquistare Gerusalemme distruggendola e trafugando molte reliquie cristiane. La città santa venne ripresa dai Bizantini nel 628, ma nel 638, con la prima espansione islamica passò nuovamente sotto il controllo dei musulmani che proseguirono la loro avanzata fino all’Egitto e alla Tripolitania (Libia). Con le numerose scorrerie nel Mediterraneo, inesorabilmente i musulmani conquistarono la Sicilia e la Spagna. Genova, in quegli anni, iniziava a strutturarsi come città dedita al commercio. I suoi mercanti intrecciavano rapporti commerciali con tutti. I commercianti genovesi non guardavano alla politica o alla religione, ma hai loro interessi e per questo erano disposti a scendere a patti anche con la loro fede cristiana. Non esistono informazioni certe circa l’attività dei genovesi dell’XI secolo verso i paesi musulmani anche se alcuni indizi storici portano a ritenere l’esistenza di buoni rapporti commerciali con l’Egitto. Ci sono, però, riscontri di assalti alle navi genovesi, ad opera di Gisulfo principe di Salerno, quando queste passavano davanti a quelle coste diretti a sud e quindi a Creta, Egitto e Siria. Difficoltà esistevano anche in vicinanza delle coste siciliane per le predazioni a cui i pirati musulmani sottoponevano tutte le navi cristiane. Capitava, però, che chi trafficava con emiri musulmani riusciva ad avere dei salvacondotti che li mettevano al sicuro dalle ruberie, ma non era semplice ottenerli né, tantomeno, che venissero riconosciuti dai pirati. La situazione cambiò radicalmente con la conquista normanna della Sicilia e con la riduzione delle attività predatorie della flotta magrebina. Anche la flotta della Repubblica Marinara di Amalfi subisce un ridimensionamento e così quella pisana, quest’ultima a causa della guerra con i genovesi per il possesso di Sardegna e Corsica che vide i secondi vincitori. A questo punto i traffici mercantili del Mediterraneo rimasero quasi esclusivamente in mano a Venezia e Genova che evitavano di scontrarsi proprio per continuare a mantenere i loro commerci. Nel Mediterraneo del tempo c’era sufficiente spazio per tutti e due e non aveva senso farsi la guerra l’uno contro l’altro. Nonostante questo tacito accordo, però, ognuna delle due Repubbliche tendeva a ricercare nuove aree commerciali e la situazione della Terra Santa di certo non li agevolava. I musulmani, esperti commercianti anch’essi, privilegiavano i commerci interni ed erano attenti a limitare i tentativi di infiltrazioni provenienti dall’esterno.
Alla conquista della Terra Santa
Nel 1096, sulla spinta di un’omelia di papa Urbano II, pronunciata durante il Concilio di Clermont del 1095, un pellegrinaggio armato partì alla volta della Terra Santa con l’obiettivo dichiarato di liberare Gerusalemme e i luoghi santi. Il 25 novembre, papa Urbano II annunciò ufficialmente l’inizio di quella che è conosciuta come Prima Crociata. All’impresa parteciparono i nobili cattolici di tutta Europa, tutti motivati da pie intenzioni che con il tempo si trasformarono in interessi personali o voglia di conquista. Partecipare alla crociata significava accattivarsi le simpatie del pontefice e, quindi, aumentare il proprio potere e, grazie al possibile bottino, le proprie ricchezze. Anche i commercianti genovesi, sotto la guida di Guglielmo Embriaco, partirono, con le loro navi, alla volta della Terra Santa, trasportando i crociati e il necessario per l’impresa. Arrivati a Costantinopoli, i Crociati, marciarono verso Gerusalemme e ad Antiochia ebbero il primo scontro significativo con i musulmani. La ricca Antiochia era una ghiotta preda. L’assedio durò cinque mesi ed ai primi di giugno del 1098 la città fu conquistata. I musulmani provarono a riprenderla grazie a rinforzi arrivati da Mussul, ma ancora una volta vengono sconfitti. La reggenza della città viene assunta da Boemondo di Taranto, Duca di Puglia e Calabria e primogenito di Roberto il Guiscardo e, quindi, di origini normanne. I genovesi, che parteciparono alla conquista della città, ottennero da Boemondo il possesso della chiesa di San Giovanni e il magazzino annesso, un pozzo e una trentina di case costruite attorno alla chiesa. Era un’ottima concessione e un ottimo trampolino di lancio per i mercati d’oriente che guardavano alle piste carovaniere della via della seta. A questo punto, viste le perdite subite e gli importanti risultati commerciali, ottenuta, quindi, gloria e ricchezza, si poteva anche far ritorno in patria con meritato orgoglio.
Myra, San Nicola e i veneziani
Facciamo un passo indietro di circa dieci anni. Marzo 1087, tre navi cariche di grano con a bordo un totale di 62 uomini fra mercanti, marinai e due sacerdoti partono dal porto di Bari. La destinazione è Antiochia apparentemente per motivi commerciali. La spedizione, in realtà, serve a mascherare l’intenzione di rubare le reliquie di San Nicola per portarle da Myra a Bari dove il santo è particolarmente venerato. Myra è, in quegli anni, sotto la dominazione turca e la chiesa dove il santo era sepolto poco curata. Portare il corpo di San Nicola a Bari avrebbe eliminato il rischio della profanazione da parte dei musulmani e garantita la sua conservazione in una città che avrebbe venerato e onorato il santo come meritava. I baresi non sapevano, però, che anche i veneziani avevano le loro stesse intenzioni. Lo scoprirono una volta arrivati ad Antiochia. Piazzarono subito il carico di grano e ripartirono subito. Volevano arrivare a Myra prima dei veneziani che, comunque, non sospettavano delle intenzioni dei baresi. La piccola flotta arriva a Myra e quel manipolo di uomini, con a capo i due sacerdoti, si fingono pellegrini venuti a pregare sulla tomba del Santo Vescovo. Vengono accolti con benevolenza dalla piccola comunità di monaci che offrono a quei devoti pellegrini il “Myrion”, il liquido che si accumulava all’interno del sarcofago di marmo dove era custodito il corpo di San Nicola. Un liquido prodigioso, in grado di guarire malattie fisiche e spirituali, preziosissimo. Ben presto i monaci si accorgono delle intenzioni di quei finti pellegrini che, dopo essersi accertati di poter trafugare i resti del Santo senza opposizione, aprono il sarcofago marmoreo e trovano le ossa del Santo Nicola immerse in un liquido. Le asportano in fretta, senza curarsi di sistemarle in modo ordinato e scappano prima che i monaci riescano a dare l’allarme agli abitanti dell’isola. I baresi lasciarono ai monaci il liquido prezioso contenuto nel sarcofago e un’icona che rappresentava San Nicola. A niente servirono le preghiere e le implorazioni dei religiosi che chiedevano la restituzione di almeno una parte dei resti. Dall’altra parte l’opposizione dei monaci, oltre a non essere convincente perché disarmati, non lo era anche perché questi ultimi si erano convinti che, se San Nicola non era intervenuto direttamente per evitare il trafugamento significava che era questa la sua volontà. Poco tempo dopo, arrivarono anche i veneziani. Chiesero ai monaci dove fosse il corpo di San Nicola e quando seppero dell’azione compiuta dai baresi, non fidandosi, aprirono ancora una volta il sepolcro già violato trovando solo qualche piccolo osso che, ovviamente, razziarono. I tre vascelli baresi, intanto, il 9 maggio 1087 arrivano a Bari.
Myra e i genovesi
Nel 1099, i genovesi che, evidentemente, non sapevano del trafugamento delle spoglie di San Nicola a Bari, nel viaggio di ritorno da Antiochia, pensano bene di passare da Myra. Avevano saputo che la chiesa dove erano custodite le ossa di San Nicola era quasi abbandonata e quindi, anche loro pensarono che non sarebbe stato un sacrilegio prelevare i santi resti per portarli a Genova dove sarebbero stati onorati e protetti. Avevano tutti queste pie intenzioni, baresi, veneziani, genovesi, ma, in realtà, la custodia di reliquie di santi importanti serviva ad aumentare il prestigio delle città, a farle diventare meta di pellegrinaggi con importanti ricadute sul commercio e sulla forza politica e militare. Essendo, poi, l’autorità ecclesiastica, troppo spesso, un’unica cosa con quella politica, possedere reliquie di santi famosi consentiva di essere visti dall’autorità papale e dai vescovi del circondario con occhi di riguardo. Ecco, dunque, che a tredici anni di distanza i genovesi sbarcano a Myra e prontamente si dirigono verso la chiesa già depredata da baresi e veneziani. I poveri monaci, già abituati a queste incursioni, spiegano che i resti di San Nicola non sono più lì, raccontano dei baresi e poi dei veneziani, ma non riescono a convincere i crociati genovesi che vogliono portare a casa le reliquie del santo. Iniziano a scavare sotto l’altare e trovano una vasca di marmo vuota, quella che in origine conteneva il corpo di San Nicola. Non si fermano perché pensano sempre che i monaci stiano mentendo. Continuano a scavare e trovano una cassa di marmo. Sono certi di aver trovato quello che cercavano. I monaci hanno mentito. Anche i genovesi scappano per raggiungere le navi pronte a ripartire inseguiti dai monaci custodi che li raggiungono sulla spiaggia implorandoli di restituire l’urna marmorea perché non conteneva quello che i crociati cercavano. A questo punto i religiosi tentano il tutto per tutto e sotto giuramento rivelano che quell’urna di marmo custodisce le ceneri di San Giovanni Battista. Non credevano ai loro orecchi, i genovesi. San Giovanni Battista? Colui che fu definito da Gesù come il più grande fra “i nati di donna”? Potevano trovare reliquie più importanti? Lasciarono i poveri monaci sulla spiaggia di Myra e, dopo aver suddiviso le ceneri del Battista fra le navi, fecero vela il più velocemente possibile verso l’Italia. Non avevano fatto i conti con il meteo, però. Le navi della spedizione vengono ostacolate da una tempesta. Rischiano di naufragare per la forza del mare del vento. È allora che uno dei sacerdoti manifesta la sua convinzione che la tempesta è la manifestazione della contrarietà del Santo a che i suoi resti vengano separati. Tutti convengono con questa convinzione del sacerdote e segnalano alle altre navi che l’unico modo per uscire da quella tempesta è di riunire le ceneri promettendo di farlo alla prima occasione utile. Fatta la promessa il vento si acquietò e subito dopo anche il mare. Le navi ebbero allora la possibilità di accostarsi l’una alle altre, di rimettere insieme le Sacre Ceneri del Battista e di affidarle al capo della spedizione. Da quel momento la navigazione prosegui senza ostacoli fino al rientro a Genova.
Le Sacre Ceneri arrivano a Genova
All’arrivo le navi furono accolte in modo trionfale. La notizia del prezioso tesoro si diffonde in un attimo anche nei paesi vicini. Le Ceneri vengono portate solennemente a San Lorenzo e consegnate al Canonico della Cattedrale in assenza del vescovo visto che la sede era vacante. Il Canonico espone le ceneri alla venerazione dei fedeli ponendoli sull’altare centrale. Tutta la città è in fermento. Ora hanno un protettore potente. Il Santo che battezzò Gesù. Potevano sperare di avere un intercessore più potente presso Dio?
Viene eletto, intanto, un nuovo vescovo, il quale fa mettere le reliquie all’interno di una cassa di marmo. Questi, non fidandosi del racconto dei marinai, voleva essere certo che quelli fossero veramente i resti di Giovanni il Battista. Dopo essersi consultato con i canonici della Cattedrale e con le autorità civili, decide di approfittare di un’altra spedizione che si recava in Medio Oriente per partecipare alla conquista di Gerusalemme. Incarica il capo della spedizione di passare, al ritorno, da Myra e di investigare e verificare l’autenticità del racconto fatto dai crociati e dai marinai che avevano portato a Genova quei resti. Quando anche questi fecero ritorno, raccontarono di aver incontrato i frati del convento di Myra, di essere stati ben accolti da questi e di avere ottenuto un’ulteriore conferma, sotto solenne giuramento, dell’autenticità di quelle reliquie. I monaci confermarono, dunque, che le reliquie sottratte dai genovesi appartenevano a Giovanni Battista, che erano arrivati da Alessandria d’Egitto e conservate con cura da San Nicola e dai suoi successori. In tutta questa vicenda, come sostiene P. Gerardo Cioffari, esistono vuoti incolmabili che non permettono di avere nessuna certezza. Non sappiamo a quale monastero facciano riferimento i genovesi; se a quello di Myra, dove si trovavano le spoglie di San Nicola Vescovo o al monastero di Nicola da Sion. È possibile che per non tornare a mani vuote dalla crociata, i genovesi abbiano prelevato delle ossa a Myra e le abbiano spacciate per quelle di San Giovanni Battista. È ancora possibile che la spedizione inviata per avere la conferma della loro autenticità abbia a sua volta mentito. Nel medioevo disporre delle reliquie di un santo importante permetteva privilegi ecclesiastici, ma principalmente economici per l’elevato flusso di pellegrini che arrivavano, equivalenti ai turisti moderni. Reliquie importanti, poi, attiravano l’attenzione di nobili e regnanti che normalmente lasciavano importanti donazioni. In ogni caso da quel momento in poi, la città di Genova e le Ceneri di San Giovanni Battista diventano un’unica cosa.
La città di Sebastia, nei secoli successivi e fino ai giorni nostri, è meta di pellegrinaggi. Sul transetto della basilica costruita dai Templari, a seguito della successiva conquista musulmana, ora si trova una moschea, ma essendo, il Battista, considerato anche dai musulmani un grande profeta, la sua tomba continua ad essere custodita. È probabile, vista la grande diffusione dei Battisti nella regione, che non furono solo i monaci pellegrini a raccogliere i resti del santo dopo il tentativo di dispersione e che seguaci di Giovanni il Battista si preoccuparono di salvare altri resti che, alla morte di Giuliano l’Apostata e al cessare delle profanazioni pagane, furono nuovamente rimesse nel sepolcro che le custodiva. Se così fosse, le reliquie custodite a Sebastia e quelle custodite a Genova sarebbero parti diverse di quanto recuperato dal tentativo di distruzione del corpo del Precursore.
Le Sacre Ceneri ai giorni nostri
Con lo scoppio della II Guerra Mondiale, temendone il danneggiamento, le reliquie, conservate a Genova, furono trasferite in un luogo protetto. In effetti la cappella del Santo subì dei danni e un proiettile d’artiglieria sparato da una nave inglese colpì la cattedrale, fortunatamente senza esplodere. Alla fine della guerra, cessato il pericolo, solennemente vennero riportate nella cappella giovannea della cattedrale di San Lorenzo e nel 1947, l’arcivescovo cardinale Siri, dispose un’ispezione delle reliquie allo scopo di verificarne lo stato. Nonostante fossero state conservate con attenzione e scrupolo, subirono dei danni a causa dell’umidità presente nel loculo dove furono rinchiuse. Il cardinale dispose allora che le reliquie venissero restaurate e contestualmente che se ne facesse una classificazione. La commissione scientifica lavorò a più riprese fra il 1947 e il 1949 sui resti ossei giungendo ad interessanti conclusioni. Dopo un’attenta operazione di ripulitura di tutti i frammenti si inizio a catalogarli cercando di identificare a quale parte anatomica dello scheletro appartenessero. La prima cosa che fu evidente erano le tracce di bruciature segno che quei resti erano stati sottoposti all’azione del fuoco. Questo dato coincide con il trattamento che alle ossa dei santi fu riservato, come abbiamo visto, durante il regno di Giuliano l’Apostata. Il cofanetto contiene 137 frammenti ossei maggiori identificati, 428 frammenti minori non identificabili per le piccole dimensioni più altri frammenti scheletrici minimi, anch’essi non identificabili, per un peso complessivo di 260 gr. più 300 gr. di terriccio composto, in parte da frammenti ossei sminuzzati, e sabbia. Anche questo dato avvalorerebbe la tradizione. I pagani, infatti, calpestarono le ossa del Battista prima di bruciarle. Dall’esame che fu fatto la commissione dedusse che le ossa conservate nella cassetta e nel reliquiario appartenevano allo scheletro di un unico uomo, dell’età compresa fra i 25 e i 45 anni, di statura media, non particolarmente atletico come poteva essere un uomo di nobili origini o, per esempio, appartenente alla classe sacerdotale. Questi dati coincidono con quelli evangelici riferiti a San Giovanni Battista. Terminate le operazioni di restauro, di ricognizione e catalogazione di tutti i reperti, le Ceneri del Battista furono rimesse nel reliquiario a cofanetto e in quello a tempietto che fino ad oggi, ogni anno, in occasione della Solennità della Nascita di San Giovanni Battista, vengono portati solennemente in processione fino al porto antico di Genova per la benedizione del mare e della città. Non è possibile affermare con certezza assoluta l’appartenenza delle reliquie conservate a Genova con i resti del santo, anche se la loro condizione concorda con il trattamento subito dal corpo di San Giovanni Battista ad opera dei seguaci di Giuliano l’apostata. Nemmeno è pensabile in un piano architettato dai marinai genovesi autori del trafugamento da Myra che abbia tenuto conto di particolari che certamente non conoscevano.
Giovanni Battista arriva a Pozzallo
Il legame fra la Città di Genova e le reliquie del Battista è ormai millenaria. Più recente è quello fra Pozzallo e San Giovanni Battista.
Il 2 febbraio 1963, un frammento dell’ulna, prelevata dal reliquiario a cofanetto, venne inserita in una teca di metallo rotonda, chiusa da un lato da un vetro. Munita di sigillo di ceralacca rossa venne donata, munita di certificato di autenticità, dal Cardinale Siri alla nostra parrocchia a seguito della richiesta presentata dall’allora giovane parroco don Sebastiano Palumbo. La richiesta pare sia stata sostenuta da un giovane frate francescano, pozzallese, fra Tarcisio Bellaera, dell’allora Provincia Francescana Ligure, che era in buoni rapporti con la Curia Arcivescovile di Genova se non con il cardinale in persona. La reliquia, sempre ad opera di don Palumbo, venne inserita in un braccio di argento, copia di quello della statua in gesso portata in processione e che andò perduta a causa della sua fragilità e sostituita con l’attuale in legno di cirmolo. Purtroppo, da una ricerca fatta all’archivio Arcivescovile di Genova, non ci sono tracce della corrispondenza intercorsa fra il parroco Palumbo e la Curia genovese e quindi l’unica prova dell’autenticità dell’appartenenza della reliquia in nostro possesso alle Ceneri del Precursore è il certificato di autenticità firmato personalmente dal Cardinale Giuseppe Siri e conservato nell’archivio parrocchiale. Ogni anno, come a Genova, la reliquia viene portata in processione fino al mare, imbarcata su un peschereccio, viene usata dal parroco per benedire la Città, i marinai e gli abitanti tutti.
© Antonio Monaca
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