È il 29 luglio dell’anno 1884 e in un piccolo borgo toscano, Galeata, da una umile famiglia artigiana, nasce colui che può essere definito “il padre dei Folli di Dio” della Chiesa fiorentina, Giulio Facibeni. Giulio diventa “don”, ricevendo gli ordini sacri, il 22 dicembre 1907 e nel 1912 viene nominato Vicario della Pieve di S. Stefano in Pane di Rifredi, a Firenze. Nel 1913 fonda il “Circolo S. Tarcisio” che si occupa dell’educazione della gioventù maschile del quartiere fiorentino.
Il 22 agosto 1888, a Pozzallo, nella casa all’inizio di via Garibaldi, di fronte al retro di Palazzo Giunta, nasce Francesco Giorgio Gugliotta. Diversamente dalla famiglia di Giulio, Francesco nasce in una famiglia benestante. Il padre Achille è un assicuratore e la madre ha due fratelli sacerdoti. Come Giulio anche Francesco entra in seminario e il 9 maggio 1915 viene ordinato sacerdote da mons. Giuseppe Vizzini.
In quegli anni tutta l’Europa è in fermento. Basta sfogliare un qualsiasi quotidiano per rendersi conto che ci sono paesi smaniosi di scatenare una guerra. Il 28 giugno 1914, con l’assassinio dell’Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, i “rumori guerrafondai” che circolavano da tempo, furono la scusa per innescare una reazione a catena che in brevissimo tempo avrebbe coinvolto tutta l’Europa provocando milioni di morti. L’Italia si dichiara neutrale. Cattolici, Giolittiani e Socialisti sono fermi oppositori alle tesi interventiste avanzate da Nazionalisti e Irredentisti. Nel 1915 le forti pressioni e la promessa da parte della Triplice Intesa, in caso di vincita, della consegna all’Italia di Alto Adige, Gorizia, Trieste, Istria e Dalmazia portarono il governo a firmare segretamente, il 26 aprile a Londra, un Patto che impegnava il paese ad entrare in guerra il mese successivo. “Il Piave mormorava, calmo e placido, al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio…” 1915. L’Italia entra ufficialmente in guerra contro gli austro-ungarici.
Don Giulio Facibeni e don Francesco Gugliotta ricevono la chiamata alle armi. Nessuno dei due, pur disprezzando la guerra, si oppone. Ambedue ritengono necessaria la loro presenza in zona di guerra perché sanno di rappresentare l’unico conforto nel momento del dolore e del disorientamento. Don Giulio resta a Firenze come soldato semplice ed è assegnato alla sanità dell’esercito mentre don Francesco, Ciccino, è inviato subito al fronte. Il 12 febbraio 1917 anche don Giulio raggiunge il fronte e scrive “…io prometto che qualunque soldato che incontrerò nel mio cammino, vedrà in me un fratello, che le carni dilacerate troveranno nelle mie mani, mani materne; che cuori doloranti troveranno nel mio cuore amore e conforto…”. È cappellano militare dell’80° Reggimento Fanteria, 22ª Divisione, IV Armata. I coscritti di questo Reggimento, conosciuto come Brigata Roma, provengono anche da due province siciliane: Messina e Siracusa.
Al Distretto Militare di Siracusa appartiene un altro Pozzallese, Giovanni Garofalo. È coetaneo di don Ciccino. Anche lui dell’88, è nato l’8 maggio in via Duilio, ora via Verdi, da Carmelo e Orazia Emilio. Nel 1910, Giovanni, si sposa con Angela Agosta e stabiliscono la loro residenza in via Raganzino dove il 13 settembre 1911 è nasce la loro primogenita Orazia. Nel 1914, la moglie Angela muore. Giovanni ha ventisette anni ed è un marinaio. I lunghi imbarchi non gli permettono di seguire i figli e, l’anno successivo, si risposa con una ragazza di sette anni più giovane, Giovanna Vindigni. È il 14 novembre 1915, cinque mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Giovanni si è risposato anche perché a Pozzallo iniziano ad arrivare le prime chiamate alle armi. Se il Regno d’Italia non si fa scrupolo di inviare al fronte i sacerdoti chi può pensare di scamparla? Giovanni è cosciente che il rischio di morire al fronte è elevato e non vuole lasciare la figlioletta orfana. Il 16 agosto 1917 nasce Carmelo, ma Giovanni è al fronte. Soldato Garofalo Giovanni, 80° Reggimento Fanteria, 9ª Compagnia, Brigata Roma, 22ª Divisione, 30° Corpo d’Armata, 4ª Armata del Grappa. È designato ad essere l’attendente di un ufficiale e Giovanni prende sul serio l’incarico. L’attendente, anche quello di un ufficiale inferiore, corre meno rischi e, inoltre, in parte, beneficia del miglior trattamento a questi riservato.
Gli austriaci già il 13 ottobre 1918 avevano deciso di chiedere un armistizio, ma temporeggiano perché vedono l’indecisione degli italiani ad intraprendere un’avanzata decisa. Se si dovrà trattare la resa, maggiore sarà il territorio di cui si dispone e più argomenti da negoziare si avranno. Il fronte politico austriaco è frantumato. L’impero Austro-Ungarico praticamente non esiste più e anche le forze armate austriache sono in sofferenza per le continue e massicce diserzioni. L’Alto Comando italiano si riunisce il 12 ottobre per decidere quando sferrare l’attacco che si pensa possa mettere fine alla resistenza nemica. Si decide di attaccare il 18 ottobre. Si preparano i dettagli della “Battaglia di Vittorio Veneto”.
Sarà la IV Armata a dare l’inizio alla grande offensiva contro gli austriaci nella zona del Grappa. L’attacco sarà sostenuto nell’ala sinistra dalla XII Armata e supportato dal fuoco dell’artiglieria della VI Armata e da sortite su tutto il fronte per creare diversivi. L’obiettivo è di conquistare il massiccio del Monte Grappa in modo da avere il controllo di tutte le valli che lo circondano e, da una posizione privilegiata per le artiglierie, favorire il guado del Piave per avanzare nel territorio in mano al nemico. Il 18 ottobre le condizioni meteo sono proibitive e il Piave è in piena. Il Comando decide di rinviare le operazioni di una settimana. Tutte le armate sono già schierate e le manovre non passano inosservate agli austriaci. È chiaro che gli italiani stanno preparando un massiccio attacco. Tutte le linee vengono rinforzate per essere pronti a respingere ogni tentativo di intrusione. Gli ordini sono di resistere ad ogni costo. Consultati i meteorologi l’attacco è deciso per il 24 ottobre. È la data perfetta perché cade ad un anno esatto dalla sanguinosa Battaglia di Caporetto.
Il gen. Giardino, al comando della IV Armata, invia un proclama di incitamento alle truppe: “È l’ora della riscossa. È l’ora nostra. I fratelli schiavi aspettano i soldatini del Grappa liberatori! Chi di voi non si sente bruciare di furia e d’amore? Il nemico traballa. È il momento di dargli il tracollo che può essere l’ultimo se glielo date secco. Ognuno di voi valga per dieci e per cento. Il vostro Generale sa che varrete per dieci e per cento. L’Italia vi guarda ed aspetta da ciascuno di voi la liberazione e la vittoria. Soldati miei, avanti!”
La IV Armata non ha ancora completato lo schieramento dell’artiglieria e Giardino teme di incontrare difficoltà nell’avanzata. Cerca di convincere il comando a rinviare le operazioni di qualche giorno, ma le pressioni per un intervento immediato dei politici sono fortissime. I francesi pensano di poter fare a meno dell’Italia per sconfiggere definitivamente tedeschi e austriaci dall’altra parte, però, hanno bisogno che la pressione sulle loro linee venga alleggerita e solo un attacco massiccio sul fronte orientale può far spostare truppe verso est. I ministri italiani temono, poi, che temporeggiare ancora possa compromettere gli accordi con gli alleati con una messa in discussione dell’annessione di Alto Adige, Friuli, Gorizia, Trieste, Istria e Dalmazia.
Don Giulio Facibeni, il giorno prima, il 23, assieme agli altri cappellani militari ha celebrato la messa dopo la quale si è fermato a parlare e a confessare i soldati della Roma. Fra questi il soldato Giovanni Garofalo partecipa con l’ufficiale del quale è attendente. Ascolta attentamente le parole di quel sacerdote che ha quasi la sua età. È incuriosito da quell’accento toscano. Lo sente parlare di morte e di resurrezione, di speranza nella pace e di perdono e ripensa ad Angela, sua prima moglie e alla figlia Orazia che porta il nome di sua madre, e poi il pensiero va veloce a Giovanna e al figlio che ancora non conosce, Carmelo.
La Brigata Roma, composta dal 79° e dall’80° Reggimento di Fanteria è destinata ad attaccare le posizioni austriache del Massiccio del Grappa. Alle 3 del 24 ottobre l’artiglieria della IV Armata inizia i tiri preparatori all’attacco. Alle 5 inizia il cannoneggiamento vero e proprio. La nebbia e la pioggia insistente sono un pesante intralcio alle operazioni. Gli austro-ungarici resistono nelle loro trincee. Vari attacchi ad opera dei reggimenti di fanteria non riescono a far breccia fra le linee nemiche. Alle 15, il gen. Giardino ordina la sospensione degli attacchi. Ha perso molti uomini ed ha bisogno di far riposare i soldati fiaccati dalla risposta accanita del nemico. Le pendici di monti e colline sono cumuli di fanghiglia, disseminate di cadaveri. La sanità militare fatica a recuperare i feriti e spesso i barellieri sono costretti a scegliere chi salvare. Ovunque sangue. Ovunque cadaveri sventrati, irriconoscibili. Spesso non si fa differenza fra italiani e austriaci. Medici, infermieri e barellieri guardano all’uomo, non alla divisa. Stessa cosa fanno i sacerdoti e don Giulio è fra questi. Nei momenti di tregua, incurante del pericolo, gira sul campo di battaglia, entra nelle trincee per confortare i tanti moribondi armato solo dell’Olio degli Infermi e del Crocefisso.
Anche don Francesco Gugliotta fa lo stesso. Anche lui incontra gli occhi terrorizzati di uomini che si sono scontrati con la morte. Sa che fra quegli uomini ci sono anche tanti suoi compaesani anche se non ne incontra nemmeno uno, ma in quegli istanti ogni uomo è uguale agli altri. Ognuno ha la sua storia, le sue passioni, la sua famiglia, la sua bandiera, la sua lingua. Eppure, in quei momenti, la sofferenza, il dolore, le mutilazioni, l’agonia appiana tutte le differenze. È l’Umanità che soffre come fosse un corpo unico. Don Ciccino, don Giulio e tutti i sacerdoti assorbono quella sofferenza caricandosela come fece il Cireneo aiutando il Cristo sulla via del Calvario. I medici, mettendo in atto la loro scienza, sono concentrati sulla “tecnica” per alleviare il dolore mentre i sacerdoti sentono la sofferenza dello spirito e inevitabilmente ne entrano a far parte.
Giovanni partecipa agli assalti. Vede tanti suoi amici morire. Sopravvive. Sempre a fianco dell’ufficiale che assiste e segue ovunque facendogli anche da “guardia del corpo”. Le mitragliate del nemico sono spietate e i colpi di obice, le granate e i cecchini non sono da meno. Nel corso dell’ultimo assalto diverse volte è stato sfiorato da pallottole o da schegge di granata. Nel corso di un attacco, fra un acquazzone e l’altro, venuta a cessare la copertura fornita dalla nebbia, Giovanni si getta dentro una profonda buca scavata da un colpo di obice. Scivolando lungo il bordo fangoso arriva sul fondo dove, immerso in 20 centimetri di acqua, c’è un soldato italiano con il fucile armato di baionetta pronto ad aspettare il nemico. Fermo, immobile, inerme. Giovanni ha bisogno di qualche minuto per capire che è morto e che le due gambe che si trovavano su un lato della buca sono sue, staccate di netto dal proiettile che gli ha fracassato il bacino.
Alle 1830 al gen. Giardino è ordinato di riprendere gli scontri. Il Piave ingrossato impedisce il guado e, quindi, bisogna impegnare gli austriaci sul Grappa per impedire che rinforzino la linea del Piave e rendano inutili gli sforzi compiuti. È un massacro dall’una e dall’altra parte. Con piccole pause gli attacchi e i contrattacchi sono continui. Nella giornata del 25 si avanza molto lentamente per la strenua resistenza austriaca. Il 26, nel pomeriggio, il VI Corpo d’Armata cerca di occupare porzioni più ampie del Monte Pertica cercando di avanzare verso il Col della Martina. Impegnato in questa avanzata è anche l’80° Fanteria. Giovanni Garofalo è mezzo metro più avanti dell’ufficiale di cui è attendente. Una mitragliatrice nemica ha inquadrato il plotone di Giovanni e mira proprio all’ufficiale che guida l’attacco. La mira è imprecisa per la distanza, per la nebbia e per la pioggia che cade incessante. Anche l’avanzata degli uomini è ostacolata e l’andatura incerta per la presenza del fango che rende i bersagli instabili. Il plotone, con a capo il sottotenente, è a poche decine di metri dalla trincea austriaca sul Col della Martina. Il sottotenente ha la pistola in una mano e la sciabola nell’altra. Giovanni, come al solito, lo precede. Dalla trincea nemica si vedono gli austriaci pronti a saltare fuori per contrattaccare all’arma bianca. Si arriva allo scontro fisico con il nemico. Urla e poi colpi di fucile, fango che schizza da tutte le parti e, con il fango, il sangue, tanto sangue che sprizza dai tagli profondi provocati dalle baionette. Nel corpo a corpo l’ufficiale italiano cade a terra ferito. Un ufficiale austriaco punta la sua pistola per finirlo e Giovanni, per proteggerlo, gli fa da scudo con il suo corpo. Il colpo di pistola, sparato a distanza ravvicinata, perfora senza fatica l’elmetto di Giovanni e gli devasta il cranio. Tutto attorno urla di incitamento in italiano, austriaco e ungherese. Colpi di fucile, di stivali che pestano il fango e di corpi che cadono privi di vita. E poi sangue, tanto sangue che viene dilavato dalla pioggia fitta che cade senza sosta. Giovanni Garofalo, matricola n. 431 del Distretto Militare di Siracusa, 80° Reggimento di Fanteria, Brigata Roma, giace in mezzo al fango sopra il corpo dell’ufficiale di cui era l’attendente. “In ogni combattimento precedeva l’ufficiale di cui era l’attendente. Vistolo in una particolare circostanza cadere ferito, con prova sublime di generosa devozione, audacemente si slanciava nella mischia, facendogli scudo del proprio corpo per salvarlo, ma ferito a morte a sua volta, gloriosamente cadeva sul campo assieme con il proprio superiore. Col della Martina – Monte Grappa” Motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare.
Lo scontro si è concluso. Italiani e austriaci sono tornati nelle loro trincee. Nessuno ha vinto e nessuno ha perso la battaglia. Hanno portato con loro i feriti e lasciato i morti. Tanti. Sul Massiccio del Grappa l’Italia perse 15.000 uomini. Nel primissimo pomeriggio del 27 ottobre, il 41° Reggimento di Fanteria riesce a conquistare il Monte Pertica. La Brigata Roma, riorganizzata dopo le perdite del 26, unitamente alla Brigata Firenze fanno da supporto fino a quando la posizione è saldamente in mano agli italiani. Ora è possibile recuperare i morti. Viene allestito un cimitero sul posto. I cappellani passano fra i morti benedicendo i cadaveri a uno a uno. Don Giulio è fra questi. Ogni soldato è identificato per mezzo della targhetta identificativa. Sono 94 i morti dell’80° sul Monte Grappa, 6 ufficiali di cui 1 disperso e 88 militari di truppa di cui 42 dispersi. I dispersi sono quelli smembrati dai colpi dei cannoni. Alcuni vengono in qualche modo ricomposti ma non è possibile identificarli. Le tombe vengono numerate in modo da permettere un successivo recupero. L’atto di morte di Giovanni Garofalo è annotato al n. 603, pagina 138 del Registro degli Atti di Morte in tempo di Guerra dell’80° Reggimento di Fanteria del Regio Esercito Italiano.
Il 30 ottobre gli italiani liberano Vittorio Veneto. Le forze armate austriache si sfaldano e sono inseguite dagli italiani. Gli austriaci trattano la resa. L’armistizio entra in vigore alle 15 del 4 novembre 1918. Nella Battaglia di Vittorio Veneto 37.461 uomini persero la vita o rimasero feriti. Di questi 5.000 sono i morti della IV Armata, 300 dell’80° Reggimento di Fanteria.
Don Giulio passa tutto il mese di novembre a raccogliere gli effetti personali dei soldati morti per riconsegnarli alle famiglie. Finalmente ritorna a Firenze. Gli hanno anche dato una Medaglia d’Argento al V.M.: “Con profondo sentimento di pietà e alto concetto della propria missione, durante intere giornate di sanguinosi combattimenti rimaneva costantemente sulla linea del fuoco a prestare con attività indefessa la sua opera pietosa, usciva anche solo dalla nostra trincea spingendosi in terreno scoperto e battuto dal fuoco nemico, per raccogliere feriti e recuperare salme dei caduti. Monte Pertica – Col della Martina (Monte Grappa 24 – 27 ottobre 1918)”. Non ne fa un vanto. Ha solo svolto la sua missione di sacerdote cattolico. Nel 1901 il Cardinale Giuseppe Sarto, futuro papa Pio X, ha posto una statua della Madonna sul Monte Grappa che fu gravemente danneggiata nel corso dei combattimenti e don Giulio prese ispirazione proprio da quella statua mutilata per fondare la sua opera di assistenza agli orfani di guerra: l’Opera Madonnina del Grappa.
Anche don Francesco Gugliotta torna a Pozzallo. Come don Giulio è fortemente segnato dal dolore che ha toccato con mano al fronte. Anche lui assisteva i soldati durante la Battaglia di Vittorio Veneto. Anche lui assiste i moribondi, consola i feriti e benedice centinaia di cadaveri italiani e austriaci. Il fratello, Michele, sergente, è morto sul Monte Sleme ed è stato insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare. Don Ciccino inizia ad occuparsi della gioventù pozzallese fondando, nel 1919 fonda il Circolo “Vita e Pensiero”. Il circolo ha lo stesso nome della rivista dell’Università Cattolica nata l’anno prima a Milano e fondata da padre Agostino Gemelli. Il Circolo chiude nel 1922 e riapre nel 1923 con il nome di Circolo Cattolico “San Tarcisio”. Nel 1928 scrive l’inno a San Giovanni Battista e una preghiera al Precursore la cui devozione si era diffusa a Pozzallo in particolar modo fra marinai e pescatori. All’inaugurazione del Circolo Vita e Pensiero è presente un giovane che, polemicamente, chiede la rimozione del crocefisso dalla stanza usata dai membri del circolo. Il giovane è nato in via Giulia, a poche decine di metri da quella stanza e si chiama Giorgio, Giorgio La Pira. Giorgio La Pira incontra don Giulio Facibeni a Firenze pochi anni dopo il suo arrivo grazie a don Raffaele Bensi e subito il padre diventa un punto di riferimento. Qualcuno sosteneva che Firenze avesse tre santi: don Giulio Facibeni, il card. Dalla Costa e Giorgio La Pira.
Quante coincidenze in questa storia:
- due cappellani militari;
- tutti e due al fronte orientale alla fine della guerra;
- tutti e due fondano un’associazione per la formazione dei giovani che è intitolata a San Tarcisio;
- tutti e due sacerdoti in città con grande devozione a San Giovanni Battista;
- tutti e due hanno sicuramente incontrato Giovanni Garofalo;
- tutti e due di grande devozione mariana;
- tutti e due hanno avuto un ruolo nella formazione della coscienza cristiana di Giorgio La Pira.
Giovanni Garofalo era il cugino di mia nonna materna. Il 30 ottobre 2021, a distanza di 103 anni dagli eventi narrati, aprendo la finestra dell’appartamento dove risiedo a Mantova, mi affaccio in piazza 80° Reggimento di Fanteria – Brigata Roma.
©Antonio Monaca