Cutter Angelo PadreIl cutter Angelo Padre

Oggi, 25 marzo, avrebbe festeggiato il suo onomastico “u zu Nunziu Sigona” e avrebbe raccontato con piacere del fratello Carmelo, forse anche per alleggerire quel senso di colpa che si porta dentro da quel 6 marzo 1926.

A questo racconto, solitamente, quando si trovavano insieme, nell’ampia sala della Società Marinara di Mutuo Soccorso, si aggiungeva “u zu Pippinu Rosa” che il 25 marzo festeggiava il compleanno.

«“Zu Nunziu”, mi raccontate di vostro fratello Carmelo?», chiedo

«Figghiu miu, ma frati, ma frati Carmelu…Chi bbuoi sapiri»

«Cosa è successo a vostro fratello?»

«Quanto tempo che è passato e, però, non si cancellano quei momenti. Sono scritti nel cuore con dolore e sono incancellabili dal tempo, come un tatuaggio fatto in una bottega di strada di Genova. “Pippì, vieni cca. To ruordi a ma frati, veru?”»

Giuseppe Rosa è più giovane di dieci anni di Nunzio e anche per lui quel giorno non sarà mai cancellato dalla memoria. Lentamente si avvicina e si siede accanto al suo vecchio Capitano.

«Certo che me lo ricordo. Mi ricordo bene di vostro fratello. Nessuno di noi potrà mai dimenticare Carmelo Sigona.»

Il vecchio Capitano chiude gli occhi e come in trance inizia il racconto.

«A mezzanotte del 4 marzo abbiamo completato la caricazione. Tra stiva e coperta abbiamo a bordo 165 tonnellate di ferro destinate a Reggio Calabria. Questa sera, nel porto di Torre Annunziata, un vento leggero fa intuire che la primavera si avvicina. Nell’aria c’è odore di pesce azzurro arrostito così come lo si può sentire nelle sere di marzo anche a Pozzallo. Con così poco vento, all’interno del porto e col buio non possiamo lasciare l’ormeggio da soli. Arriva un piccolo vaporetto che ci rimorchierà fino a qualche centinaio di metri dalla protezione del molo.

Carmelo è un marinaio esperto. Ha tanti anni di mare sulle spalle. Lui è dell’82 mentre io sono dell’87. Non ha mai voluto studiare per prendere la licenza di Padrone perché non vuole la responsabilità del comando di una nave ma qualcuno, la nostra nave dovrà pur comandarla. Si chiama come mia madre “Peppina”, “Peppina Sigona” e a bordo siamo in sei: io, mio fratello Carmelo, tre marinai, Francesco Giordanella, Giuseppe Rosa, Filippo Capuzzo e il mozzo Corrado Zocco.

Mollato il rimorchiatore, Carmelo, ordina ai marinai di predisporre la nave alla traversata. Si controlla per l’ultima volta il carico in coperta, l’immobilizzazione delle ancore, la sigillatura di tutte le aperture in coperta e si predispone la velatura ad un lungo bordo che ci porterà fino alle Eolie. Da lì, l’ultimo bordo per inserirci nello Stretto di Messina per poi dirigere su Reggio Calabria. Muoversi e lavorare alla luce dei piccoli lumi a petrolio non è facile ma l’equipaggio conosce bene la nave, è ben coordinato e gran parte della preparazione è stata fatta prima della partenza. Si fa presto e finalmente si può riposare. Primo turno di guardia. Il mozzo di vedetta e un marinaio al timone. Avviso il timoniere della rotta da seguire e gli ricordo di chiamarmi per ogni emergenza o nel caso il vento dovesse cambiare. Navighiamo con mura a dritta di traverso. Puntiamo su Capri dove accosteremo lasciandocela a dritta con a sinistra la penisola sorrentina e da giù fino alla Sicilia.»

Giuseppe Rosa annuisce al racconto di Nunzio. Anche lui è immerso nei pensieri, nei ricordi.

«La mattina del cinque siamo già in vista di Stromboli. La navigazione è stata tranquilla tutta la notte. Abbiamo scarrocciato poco. La Peppina Sigona scivola bene nell’acqua con un’ottima stabilità. Certo il carico aiuta non poco. Tutto quel ferro a bordo fa abbassare molto il centro di gravità della nave e la rende molto stabile. È in un equilibrio perfetto. L’opera viva, la parte immersa, si oppone bene allo scarroccio e, praticamente, la nave si trova quasi dove avevo calcolato dovesse trovarsi. All’una, dopo aver mangiato qualcosa, con Carmelo, andiamo su in coperta. Abbiamo notato un beccheggio più accentuato. Il vento è rinforzato ed ha cambiato direzione. Ora soffia da WSW. D’accordo con Carmelo riduciamo un po’ la velatura. Fino alle 18 il vento aumenta gradualmente ma, soprattutto, è il mare che diventa sempre più agitato. Carmelo fa ridurre ancora la superficie velica. Il vento ha mutato nuovamente direzione. Ora soffia fortissimo da NNW. Siamo all’altezza di Punta Milazzo. Il vento ora è così forte che strappa dagli alberi il trinchetto, il barile, la trinchettina e il controfiocco. Mai visto un cambiamento del vento così repentino. Non abbiamo avuto il tempo di far nulla. Le restanti vele sono praticamente inutilizzabili per come sono ridotte tutte le manovre. Ci resta solo la maestra, tutta terzaruolata e la cavalla. Con quelle vele non è possibile proseguire la navigazione. Possiamo dirigere su Milazzo. Sono quasi le 23. Il vento rinforza ancora e non ci permetterà di entrare in porto. Carmelo mi consiglia di provare a dar fondo davanti alla spiaggia in contrada Gabbia di Milazzo. A circa 500 metri dalla battigia, io stesso scandaglio. Quindici braccia. Carmelo e un marinaio danno fondo contemporaneamente con le due ancore di posta. Il fondo è un misto di sabbia e fango e dovrebbe essere un buon tenitore. Aspettiamo che passi la tempesta e poi vedremo di riuscire a raggiungere il vicino porto. Durante tutta la notte le onde non ci danno tregua anzi sembrano rinforzare. Appena giorno, intorno alle sette, comando di dar fondo anche con l’ancora di speranza. Speranza, l’ancora di speranza si usa come ultima possibilità o quando le altre ancore sono perdute. Con tre ancore riusciremo a bloccare la nave. Alle 8 il vento è impetuoso. Cambia direzione ancora una volta, NNE. Le tre ancore sono costantemente in forza e quando un’onda solleva la prua della nave sembra quasi che anche loro si stacchino dal fondo. Non è un’impressione. Non si staccano dal fondo ma perdono parte della presa e iniziano ad arare. La nave, molto lentamente, sia avvicina alla spiaggia. Il mare rinforza ancora. Anche l’ancora di speranza inizia a perdere la sua presa. La nave è molto pesante e se con mare calmo era un vantaggio per l’aumento di stabilità, ora proprio il peso rilevante si scarica sulle ancore e queste non riescono a tener ferma la brigoletta. Tutto l’equipaggio è in coperta. Tutti sono pronti ad intervenire, a rispondere prontamente agli ordini. Hanno capito che ad essere in pericolo non è più il carico o la nave ma la loro stessa vita. È quasi mezzogiorno. Le ancore continuano ad arare e sulla spiaggia che sembra sempre più vicina ci sono due contadini Faccio segnali come meglio posso per chiedere aiuto. Nello stesso momento, dal vicino porto di Milazzo, i militari della capitaneria si sono accorti della difficoltà nella quale ci trovavamo e ordinano al piroscafo “Adele” di venire in nostro soccorso e infatti si dirigono su di noi ma sono costretti a tornare indietro per la forza del mare e per la pericolosa vicinanza della Peppina Sigona alla spiaggia. Ordino di gettare in mare il carico che abbiamo in coperta, circa 10 tonnellate. Se alleggeriamo la nave le ancore dovranno sopportare un peso inferiore e dovrebbero riuscire a far presa. Non è così. Forse se fossimo riusciti a gettare in mare quelle 10 tonnellate contemporaneamente sarebbe andata così ma per sei, uomini già stanchi dopo una notte insonne, l’operazione richiede tempo e il tempo non c’è. Sentiamo il timone toccare il fondo e cominciare a battere su di esso ad ogni onda che arriva. Subito dopo anche il calcagnolo batte violentemente sul fondo. I colpi fanno incrinare il fasciame. Le tavole si spaccano e l’acqua si fa strada all’interno della poppa del veliero. Non riusciamo quasi a stare in piedi e qualcuno viene sbattuto contro le murate dalle onde che ora salgono violentemente in coperta. La nave è ormai perduta. Con Carmelo e gli altri decidiamo di mollare la gomena dell’ancora di speranza e di filare le catene delle due ancore di posta. In questo modo le onde porteranno la prua della nave a girare verso la spiaggia e il veliero a disporsi di traverso offrendoci un riparo dalla furia delle onde e dalla risacca permettendoci di raggiungere la riva. La poppa è praticamente distrutta. Le imbarcazioni di salvataggio sono state sbalzate in mare dalle onde diventate proprietarie del ponte principale della brigoletta. Possiamo salvarci solo raggiungendo a nuoto la spiaggia. Indossiamo i salvagenti e mentre ci gettiamo in acqua quando un’onda più forte delle altre investe il lato sinistro del bastimento e trascina in mare Carmelo. Sono le 14 del 6 marzo. Un attimo e non lo vediamo più. Non c’è più tempo. Mentre nuoto, con le bracciate ostacolate dal salvagente, cerco di trovare Carmelo. Vedo tutti gli altri ma non lui. Anche se la spiaggia è vicina arriviamo stremati. L’acqua è fredda, molto fredda e c’è una forte risacca. Striscio sulla sabbia e uso le dita come le marre di un’ancora facendo presa per evitare di essere risucchiato dal mare e, appena riesco a puntare i piedi, mi alzo. Siamo in cinque. Tutti e cinque in piedi a cercare Carmelo. Vero, Pippì?»

Giuseppe Rosa non risponde. Annuisce soltanto.

«Come può essere sparito così? A pochi metri dalla riva? Carmelo è un bravo nuotatore. È un marinaio che sa perfettamente cosa fare se si cade in acqua. Ha il salvagente, perché non è rimasto a galla? Niente. Solo spruzzi che annebbiano la vista e il rumore delle onde che completano l’azione demolitrice della mia bella nave. Più di un anno per costruirla e in pochi minuti è stata distrutta completamente. Il freddo non ci permette di restare ancora sulla spiaggia. Carmelo è stato trascinato dalla corrente di risacca lontano e forse ha perso il salvagente. Non possiamo fare nulla. C’è una casa colonica dove troviamo riparo mentre arrivano un’auto e un autocarro con la milizia fascista e il comandante dell’Ufficio di Porto di Milazzo. Riceviamo tutta l’assistenza possibile e ci portano in un albergo della città per rinfrancarci. Mentre mi cambio gli abiti bagnati con quelli che ci hanno messo a disposizione le autorità penso solo a Carmelo in quell’acqua fredda, trascinato sul fondo da questo mare assassino. Potevo fare più di quello che ho fatto? Ho pensato a salvare me stesso e non ho pensato agli uomini, a Carmelo che potevano essere in difficoltà? Io sono il comandante. Avrei dovuto assicurarmi che tutti fossero in salvo e dopo pensare alla mia salvezza.»

“Pippinu” Rosa trova ora la forza per intervenire. «No, Nunzio. Hai fatto quello che dovevi fare. Carmelo era capace di pensare a sé stesso. Tutte le manovre sono state corrette. Nessuno di noi ha nulla da rimproverarsi. È “u ristinu. Attuccava a riddu”.

©Antonio Monaca

La foto è tratta dal sito www.lefodisanta.com e dalla relativa pagina FB https://www.facebook.com/lefotodisanta?__tn__=-UC*F ed è relativa al naufragio del cutter Angelo Padre sulla spiaggia di Santa Margherita Ligure.

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